RIVISTA PLEXUS

Il tempo della cura, la cura del tempo

Vol. 16 N. 1-2 – Giugno/Novembre 2023

Nel pensare e definire il tema del fascicolo che qui pubblichiamo, il Comitato di redazione ha preso a riferimento il filo delle domande e dei contenuti oggetto dei due numeri precedenti della rivista. Il primo dei quali – Dov’è finito il gruppo? – aveva provato ad esplorare in che modo nella vita sociale contemporanea e nel lavoro psicoterapeutico il pensiero e la pratica dei gruppi siano presenti, che spazio e che senso hanno, se ancora è rintracciabile la cosiddetta “cultura dei gruppi” come orizzonte di orientamento della professione (e non solo …). Nel numero più recente avevamo rivolto l’attenzione alla trasmissione e alla formazione professionale tra le recenti generazioni.

Ci siamo accorti che lo sviluppo di questi temi conteneva implicitamente un’interrogazione trasversale, quella sul modello culturale dominante, del quale una delle chiavi di lettura poteva essere la concezione del tempo e i vissuti della temporalità.

 

Indice analitico


ARTICOLI

Editoriale
Giuseppe Ruvolo | Scopri di più

Cura e tempo nell’esperienza dei giovani psicoterapeuti. Indagine qualitativa a cura del Comitato di redazione allargato
Giulia Ajovalasit, Stefano Alba, Roberto Ardilio, Ugo Corino, Giovanni Di Stefano, Federica Fuoco, Giampiero Genovese, Paolo Guaramonti, Valentina Lo Mauro, Umberto Marrone, Gabriele Profita, Giuseppe Ruvolo | Scopri di più

Il gruppo multifamiliare del Budget di Salute dell’ASST Santi Paolo e Carlo come elemento ponte tra il tempo istituzionale della comunità e il tempo del vivere
Angela Palmieri, Marco Pansera, Serena Ferrario, Benedetta Riva, Giuseppina Pisciotto, Claudio Di lello, Alessandro Grecchi, Gemma Maresca | Scopri di più

Tempi della cura e tempo della formazione alla psicoterapia
Alessia Torregrossa | Scopri di più

Articoli

Editoriale

Giuseppe Ruvolo

Nel pensare e definire il tema del fascicolo che qui pubblichiamo, il Comitato di redazione ha preso a riferimento il filo delle domande e dei contenuti oggetto dei due numeri precedenti della rivista. Il primo dei quali – Dov’è finito il gruppo? – aveva provato ad esplorare in che modo nella vita sociale contemporanea e nel lavoro psicoterapeutico il pensiero e la pratica dei gruppi siano presenti, che spazio e che senso hanno, se ancora è rintracciabile la cosiddetta “cultura dei gruppi” come orizzonte di orientamento della professione (e non solo …). Nel numero più recente avevamo rivolto l’attenzione alla trasmissione e alla formazione professionale tra le recenti generazioni.

Ci siamo accorti che lo sviluppo di questi temi conteneva implicitamente un’interrogazione trasversale, quella sul modello culturale dominante, del quale una delle chiavi di lettura poteva essere la concezione del tempo e i vissuti della temporalità. In parallelo, nel lavoro e nei dispositivi psicoterapeutici, ci è apparso come il tempo fosse…

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una delle dimensioni principali, fondativa della cornice della relazione psicoterapeutica, dato che la cura, in altre parole, si declina principalmente nella “qualità” e nella “quantità” di tempo dedicato. Si potrebbe dire che la cura del tempo sia indispensabile alla cura delle relazioni e della sofferenza mentale.

Da qui, è stato immediato prendere atto che le declinazioni del tempo che scandiscono la vita collettiva contemporanea (per es., il tempo dell’efficienza, dell’economia neoliberista, il tempo della produzione e del consumo delle merci, ecc.) non fossero congruenti con il tempo della relazione psicoterapeutica, anzi costituissero motivo di ostacolo alla cura, all’accesso stesso a un tempo della cura. Del resto, abbiamo imparato dalle analisi psico-sociali che quelle declinazioni della vita sociale contemporanea (precarietà, istantaneità, ipervelocità ecc.) riguardano molto da vicino il lavoro psicoterapeutico, poiché sono tra i principali macro-fattori generatori del malessere.

Date queste premesse, e in continuità con le riflessioni sulla formazione e la trasmissione generazionale della nostra professione, abbiamo ritenuto particolarmente interessante esplorare quale fosse l’esperienza dei colleghi formati nella generazione ultima, quale continuità/discontinuità è possibile cogliere tra loro e le generazioni precedenti (quella che include noi della redazione, in particolare).

Così, questo fascicolo, oltre a due contributi nella forma tradizionale dell’articolo, ospita i risultati dell’indagine sulla più recente generazione di colleghi formati nella Scuola COIRAG. L’abbiamo pensata e realizzata, allargando il comitato di redazione – provvisoriamente per questo scopo – con la presenza di colleghi più giovani, per servirci anche delle loro risorse e del loro vertice di osservazione nel costruire ponti di contatto e comprensione. L’esperienza di questo comitato transgenerazionale è stata per tutti noi di grande interesse e piacere, pertanto non rimarrà solo un esperimento, ma un punto di ripartenza e rilancio della rivista.

Auguriamo ai lettori la stessa nostra curiosità nel leggere i contributi di questo numero e, segnatamente, l’esito delle innovazioni di metodo (v. uso dell’AI nell’elaborazione delle interviste) e di processo (V. il coinvolgimento attivo dei cosiddetti “soggetti” nell’indagine qualitativa).

Cura e tempo nell’esperienza dei giovani psicoterapeuti. Indagine qualitativa a cura del Comitato di redazione allargato 
Giulia Ajovalasit, Stefano Alba, Roberto Ardilio, Ugo Corino, Giovanni Di Stefano, Federica Fuoco, Giampiero Genovese, Paolo Guaramonti, Valentina Lo Mauro, Umberto Marrone, Gabriele Profita, Giuseppe Ruvolo

L’articolo presenta i risultati di un’indagine qualitativa condotta su giovani psicoterapeuti specializzati presso la Scuola COIRAG negli ultimi 5 anni. Attraverso interviste individuali e focus group sottoposte ad analisi tematica tramite intelligenza artificiale generativa e un processo di tipo ermeneutico, la ricerca ha inteso esplorare le rappresentazioni e i vissuti relativi al tempo della cura e alla cura del tempo nella contemporaneità. I risultati evidenziano una professione in profonda trasformazione, con i giovani psicoterapeuti impegnati in una continua tensione tra aspetti tradizionali e innovativi, tra dimensione individuale e sociale, in un contesto caratterizzato da crescente complessità e precarietà. La ricerca ha coinvolto anche un momento di rispecchiamento con i partecipanti, rendendola circolare e partecipativa.

Tempo della cura, Identità professionale, Processo ermeneutico qualitativo…

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Care and Time in the Experience of Young Psychotherapists: A Qualitative Investigation by the Extended Editorial Committee

The article presents the results of a qualitative investigation conducted with young psychotherapists who graduated from the COIRAG School in the last 5 years. Through individual interviews and focus groups subjected to thematic analysis using generative artificial intelligence and a hermeneutic process, the research aimed to explore representations and experiences related to the time of care and the care of time in contemporary society. The results highlight a profession undergoing profound transformation, with young psychotherapists engaged in a continuous tension between traditional and innovative aspects, between individual and social dimensions, in a context characterized by increasing complexity and precariousness. The research also included a reflective session with participants, making it circular and participatory.

Time of care, Professional identity, Relational complexity, Qualitative hermeneutic process

1. Il progetto dell’indagine

Nel lavoro del Comitato di redazione degli ultimi anni è ricorsa spesso, per varie ragioni, una domanda sul presente e il futuro della psicoterapia analitica che, quasi sempre, è approdata nel prendere atto di un “non sapere” e una curiosità su cosa fanno, cosa pensano e come si muovono i giovani colleghi psicoterapeuti formati negli ultimi anni, soprattutto alla Scuola COIRAG. Nel preparare questo nuovo fascicolo abbiamo preso sul serio questa domanda/curiosità e scelto di farne una esplorazione, utilizzando – come ultimamente abbiamo fatto spesso – la modalità dell’intervista semistrutturata.

Allo stesso tempo, ci siamo chiesti se non potessimo fare qualcosa per coinvolgere dei colleghi più giovani al lavoro di ideazione e programmazione della rivista che facilitasse gradualmente un passaggio di consegne e, perché no, portasse nuove idee e impulso nel Comitato editoriale e nella forma e contenuto della rivista.

Così, un obiettivo si è appoggiato e fecondato su un altro, diventando il progetto di un’indagine e il processo per… prendere due piccioni con una fava.

Abbiamo formulato dunque un programma nel quale, a partire dalla definizione di alcuni obiettivi di indagine e una traccia di temi da esplorare, avremmo chiesto a un gruppo di giovani colleghi di lavorare con noi in un Comitato di redazione allargato per realizzare le interviste, elaborare il materiale raccolto e dargli una forma per la pubblicazione.

L’ipotesi che abbiamo seguito era che i colleghi cooptati avrebbero integrato l’esperienza e il punto di vista del Comitato preesistente con la loro esperienza diretta, più vicina a quella dei colleghi che avremmo intervistato. Inoltre, in questo modo essi avrebbero potuto coinvolgersi nel lavoro editoriale e, a partire da questo, verificare il loro interesse a continuare a lavorare per affiancare e gradualmente rinnovare il Comitato stesso nel prossimo futuro.

L’indagine che abbiamo pensato è lontana dal pretendere di fare una ricerca “scientifica”, piena di ragionamenti sul campione, gli indici, numeri e formule di rappresentatività e attendibilità. Ci siamo ispirati, da un lato al modello/processo della ricerca qualitativa partecipata, dall’altro all’attitudine all’ascolto critico che ci proviene del lavoro clinico; abbiamo cercato di definire con chiarezza i soggetti target, puntando a far emergere la loro diretta esperienza e focalizzando la nostra attenzione sulla loro narrazione, rinviando l’individuazione di concrete (e vissute) risposte alle nostre domande, all’analisi del contenuto emergente dalla registrazione delle interviste.

Molto empiricamente, abbiamo scelto (e siamo stati scelti!) i colleghi da cooptare pescando nei contatti diretti in ciascuna delle sedi della Scuola COIRAG, quelli che abbiamo trovato disponibili e interessati.

A loro abbiamo chiesto di attivarsi per chiedere ai loro colleghi di formazione chi fosse disponibile per le interviste: il piano prevedeva di intervistare due colleghi individualmente e un gruppo di 5/6 per un focus in ciascuna delle sedi della Scuola COIRAG.

Le interviste sono state condotte tendenzialmente da un “anziano” e un “giovane” tra i membri del Comitato allargato.

Di seguito la traccia per le interviste semistrutturate:

Indicazioni generali

Le interviste, individuali o di gruppo, co-condotte dai giovani colleghi e dai membri del Comitato di Redazione di Plexus, andranno a sollecitare esempi concreti, esperienze, situazioni, aspetti biografici, evitando per quanto possibile le generalizzazioni e le intellettualizzazioni (v. intervista narrativa).

Le interviste individuali dureranno tra i 45’ e i 60’; le interviste di gruppo 1h 30’ fino a 2h.

Nelle interviste di gruppo si parte sempre dall’esperienza individuale, ma si cerca di favorire la sintesi delle storie dei singoli per sollecitare l’interazione tra i partecipanti (v. focus group).

Gli ultimi minuti (10’ per le interviste individuali, 20’ per le interviste di gruppo) dovranno essere dedicati a un’osservazione “su” l’intervista appena svolta, sollecitando dei commenti su ciò che è stato detto, su quanto emerso, su ciò che è percepito particolarmente significativo e che si può definire in termini di “temi emergenti” dall’intervista stessa.

Le interviste dovranno essere audioregistrate; saranno poi sottoposte a trascrizione automatica e a un’analisi tematica.

Domande-stimolo

Passato

Pensa alla tua storia personale: quando è maturata la tua scelta formativa per la psicologia? C’è un evento in particolare?

Quando hai cominciato a pensare alla professione di psicoterapeuta?

Presente

Oggi, la tua professione quanto ha di diverso rispetto a ciò che avevi immaginato allora? Quali le delusioni, quali le sorprese?

Percepisci una differenza tra il modo di svolgere questa professione tra la tua generazione e le precedenti (docenti, tuoi analisti, colleghi anziani)? In che cosa consiste questa differenza? Come ti senti rispetto a chi ti ha preceduto?

Quali sono le difficoltà oggi nell’essere psicoterapeuta?

Come vivono oggi il tempo i tuoi pazienti, sia il tempo della società (il “nostro tempo”), sia il tempo della cura?

Come tu vivi oggi il tuo tempo, nella professione e nella tua vita?

Futuro

Come ti immagini fra 10 anni? Come immagini sarà la tua professione tra 10 anni?

Implicazioni Sociali/Comunitarie della professione

Ritieni che il tuo lavoro abbia delle ricadute sulla comunità? In che modo?

Tu, che impatto ritieni di avere sulla comunità attraverso ciò che fai professionalmente?

A tuo avviso, cosa oggi la società chiede agli psicoterapeuti?

2. La metodologia

L’indagine si è sviluppata attraverso un approccio qualitativo volto a esplorare le rappresentazioni e i vissuti dei giovani psicoterapeuti rispetto al tema del tempo della cura e della cura del tempo nella contemporaneità. Il disegno metodologico si è ispirato al modello della ricerca qualitativa partecipata, integrato con l’attitudine all’ascolto critico derivante dalla pratica clinica.

2.1. Definizione del campione e criteri di selezione

Il target dell’indagine è stato costituito da psicoterapeuti specializzati presso la Scuola COIRAG da non più di 5-6 anni, operanti nelle cinque sedi italiane (Milano, Padova, Roma, Palermo, Torino). I partecipanti sono stati selezionati attraverso contatti diretti e segnalazioni, senza pretese di rappresentatività statistica, ma con l’obiettivo di raccogliere testimonianze significative dell’esperienza professionale dei giovani psicoterapeuti a orientamento gruppoanalitico nella contemporaneità.

2.2. Modalità di raccolta dei dati

Sono state condotte interviste semistrutturate in due formati:

  • Interviste individuali (durata 45-60 minuti)
  • Focus group (durata 1h30-2h)

Le interviste sono state co-condotte da un membro “senior” del Comitato di Redazione di Plexus e da un collega “giovane” appartenente al Comitato di redazione allargato, appositamente costituito per questa indagine. Questa scelta metodologica ha mirato a integrare diverse prospettive generazionali sia nella raccolta che nell’analisi dei dati.

La traccia delle interviste è stata articolata su tre aree temporali (passato, presente, futuro) e una dimensione sociale/comunitaria:

  1. Passato: esplorazione delle motivazioni e del percorso formativo
  2. Presente: vissuto attuale della professione, differenze generazionali percepite, difficoltà nell’essere psicoterapeuta oggi, esperienza del tempo nella cura
  3. Futuro: proiezioni professionali a medio termine (10 anni)
  4. Implicazioni sociali/comunitarie: percezione dell’impatto sulla comunità, richieste della società agli psicoterapeuti

Le interviste hanno privilegiato la sollecitazione di esempi concreti, esperienze e situazioni specifiche, evitando generalizzazioni e intellettualizzazioni, in linea con l’approccio narrativo. Negli ultimi minuti di ogni intervista (10’ per le individuali, 20’ per i focus group) è stato dedicato spazio a una meta-riflessione sull’intervista stessa, invitando i partecipanti a commentare quanto emerso e a identificare i temi percepiti come più significativi.

Complessivamente, hanno partecipato all’indagine 33 psicoterapeuti, articolati tra 10 interviste individuali e 4 focus group con 5/6 partecipanti ciascuno.

2.3. Registrazione e trascrizione

Tutte le interviste sono state audioregistrate e successivamente trascritte utilizzando un software di trascrizione automatica (Microsoft Word). Questo ha prodotto un corpus testuale che è stato poi sottoposto a editing per migliorarne la leggibilità mantenendo la fedeltà ai contenuti originali.

2.4. Modalità di analisi

L’analisi del contenuto è stata condotta attraverso un processo che ha integrato metodologie tradizionali con l’utilizzo di intelligenza artificiale generativa. Questo approccio si è articolato nelle seguenti fasi:

  1. Costituzione di un knowledge context: è stato creato un progetto strutturato contenente la traccia metodologica dell’indagine e i file delle trascrizioni, da cui sono stati rimossi gli interventi degli intervistatori per focalizzare l’analisi esclusivamente sulle risposte degli intervistati.
  2. Analisi tematica assistita dall’AI: il corpus è stato sottoposto a un’intelligenza artificiale generativa (claude.ai) con richieste specifiche di identificazione di cluster di significati, occorrenze e co-occorrenze. L’AI ha prodotto una prima sintesi dei temi emergenti, sia in forma discorsiva che tabellare, distinguendo tra quanto emerso dai focus group e dalle interviste individuali.
  3. Processo ermeneutico collettivo: il Comitato di redazione allargato ha esaminato queste prime sintesi in diversi incontri, sviluppando ulteriori interrogativi di ricerca che sono stati nuovamente sottoposti al corpus attraverso l’intelligenza artificiale.
  4. Elaborazione di risposte agli interrogativi emersi: le domande formulate dal gruppo di lavoro sono state utilizzate per sollecitare nuovamente il corpus, ottenendo risposte più mirate e approfondite su specifici aspetti di interesse.

A completamento del processo di analisi, è stato organizzato un incontro di rispecchiamento che ha coinvolto i partecipanti alle interviste, il Comitato di Redazione e i collaboratori alla redazione del numero. Questo momento ha avuto una duplice finalità:

  • Verificare se e quanto gli intervistati si riconoscessero nelle sintesi prodotte
  • Esplorare aspetti non emersi o temi ritenuti più salienti

Questo incontro ha costituito un’ulteriore fonte di dati e riflessioni incorporati nella stesura finale dell’articolo, rendendo il processo di ricerca circolare e partecipativo fino alla sua conclusione.

La metodologia adottata, pur non aspirando a canoni di ricerca scientifica quantitativa con indici di rappresentatività e attendibilità, ha consentito di esplorare in profondità l’esperienza soggettiva e intersoggettiva dei giovani psicoterapeuti, rimanendo fedele all’attitudine all’ascolto e all’analisi riflessiva propria dell’approccio clinico.

 

3. Temi emersi ed estratti

L’indagine qualitativa condotta ha permesso di raccogliere un ricco corpus di narrazioni. L’analisi tematica di questo materiale ha seguito un processo articolato in diverse fasi: una prima identificazione di macro-temi e cluster concettuali, seguita da una riflessione ermeneutica che ha portato alla formulazione di interrogativi specifici, successivamente sottoposti al corpus per un’ulteriore estrazione di contenuti.

3.1. Prima analisi tematica del corpus

La prima analisi del corpus delle interviste ha permesso di identificare quattro macro-aree tematiche che caratterizzano l’esperienza dei giovani psicoterapeuti, ciascuna articolata in dimensioni specifiche, come sintetizzato nella Tabella 1.

Trasversalmente a queste macro-aree, sono stati identificati tre elementi che attraversano e caratterizzano l’esperienza complessiva dei giovani psicoterapeuti, come riportato nella Tabella 2.

Tabella 1. Macro-aree tematiche emergenti dalla prima analisi

Macro-area

Dimensioni specifiche

COMPLESSITÀ DEL PERCORSO IDENTITARIO

–      Gradualità nel costruirsi come terapeuti

–      Importanza della formazione personale (analisi, supervisione)

–      Tensione tra ideali formativi e realtà professionale

–      Fatica nel legittimarsi e autorizzarsi al ruolo

PRECARIETÀ E SOSTENIBILITÀ

–      Difficoltà economiche e organizzative

–      Necessità di diversificare le fonti di reddito

–      Tensione tra qualità del lavoro e sostenibilità

–      Complessità nella gestione dei diversi ambiti lavorativi

CAMBIAMENTO SOCIO-CULTURALE

–      Accelerazione dei tempi e richiesta di immediatezza

–      Impatto della tecnologia sulla professione

–      Nuove domande e aspettative dei pazienti

–      Necessità di adattamento vs mantenimento del setting

IMPEGNO SOCIALE

–      Desiderio di incidere sulla comunità

–      Tensione tra dimensione clinica e sociale

–      Necessità di “esporsi” come categoria

–      Riflessione sul ruolo sociale dello psicoterapeuta

 

Tabella 2. Elementi trasversali emergenti dalla prima analisi

Elemento trasversale

Descrizione

COMPLESSITÀ

–      Necessità di gestire molteplici dimensioni

–      Integrazione di setting e modalità diverse

–      Equilibrio tra vari aspetti della professione

TENSIONE

–      Tra ideale e reale

–      Tra tradizione e innovazione

–      Tra individuale e sociale

–      Tra sostenibilità e qualità

TRASFORMAZIONE

–      Della professione

–      Del contesto sociale

–      Delle modalità di intervento

–      Del ruolo professionale

Dall’analisi dei temi emergenti, si delinea il ritratto di una generazione di psicoterapeuti che si trova a dover gestire una professione in profonda trasformazione, cercando di integrare aspetti tradizionali e innovativi, individuali e sociali, in un contesto caratterizzato da crescente complessità e precarietà. Le testimonianze mostrano un forte investimento nella professione insieme a una consapevolezza critica delle sfide contemporanee, con la ricerca costante di un equilibrio tra adattamento ai cambiamenti e preservazione degli elementi fondanti dell’identità professionale.

3.2. Interrogativi ermeneutici posti al corpus

A partire dalla prima lettura dell’analisi tematica, il gruppo di lavoro ha elaborato una serie di interrogativi di approfondimento, organizzati in sette aree, volti ad esplorare ulteriormente le dimensioni emergenti. Questi interrogativi, elencati di seguito, sono stati “sottoposti” al corpus delle interviste per un’analisi più mirata e dettagliata.

TEMPO E TEMPORALITÀ

  • Come vivono e gestiscono i giovani psicoterapeuti il rapporto tra tempo professionale e tempo personale?
  • Che posto occupa nelle loro vite il “tempo liberato”, quello dedicato alla dimensione sociale e politica?
  • Come si configura oggi il “tempo della cura” rispetto alle generazioni precedenti?
  • Quali sono le tensioni tra il “tempo lento” della psicoterapia e l’accelerazione sociale contemporanea?
  • Come viene vissuto il conflitto tra i tempi della terapia e le richieste di immediatezza dei pazienti?

IDENTITÀ PROFESSIONALE E TRASMISSIONE

  • Quali differenze emergono nella concezione del ruolo tra le diverse generazioni di psicoterapeuti?
  • Come viene vissuto il rapporto con i “maestri” e con la tradizione ricevuta?
  • Che tipo di tensioni emergono tra innovazione e tradizione nella pratica clinica?
  • Come si configura oggi l’identità professionale rispetto al passato?

DIMENSIONE SOCIALE E POLITICA

  • Che ruolo ha la dimensione collettiva/sociale nella vita professionale dei giovani terapeuti?
  • Come si pongono rispetto alla partecipazione associativa e alla vita istituzionale?
  • Quale impatto pensano di avere sulla società attraverso il loro lavoro?
  • Come vedono il rapporto tra psicoterapia e trasformazione sociale?

SETTING E NUOVE TECNOLOGIE

  • Come viene vissuto e gestito il rapporto con le nuove tecnologie nella pratica clinica?
  • Quali cambiamenti ha portato la diffusione delle piattaforme online?
  • Come viene affrontata la tensione tra setting tradizionale e nuove modalità di lavoro?

EMOZIONI E VISSUTI

  • Quali emozioni emergono dai racconti degli intervistati?
  • Come viene vissuta la solitudine professionale?
  • Come viene elaborata la frustrazione rispetto alle aspettative iniziali?
  • Quali sono le principali preoccupazioni rispetto al futuro della professione?

DOMANDE PRATICHE E ORGANIZZATIVE

  • Come organizzano concretamente la loro giornata lavorativa?
  • Come bilanciano diversi setting e contesti di lavoro?
  • Come gestiscono gli aspetti economici e di sostenibilità della professione?

RICHIESTE E BISOGNI DEI PAZIENTI

  • Che tipo di domande portano oggi i pazienti?
  • Come è cambiato il modo di presentarsi e di chiedere aiuto?
  • Come viene vissuta la tensione tra domanda di soluzioni rapide e necessità di un tempo lungo?

3.3. Risposte emergenti dal corpus alle domande poste

L’ulteriore analisi del corpus alla luce degli interrogativi posti ha prodotto una serie di “risposte” organizzate nelle sette aree tematiche identificate. La Tabella 3 offre una sintesi dei principali temi emersi in ciascuna area.

Tabella 3. Sintesi dei temi emergenti dall’analisi mirata del corpus

Area tematica

Principali temi emergenti

Tempo e temporalità

–      Difficoltà nel bilanciamento tempo professionale/personale

–      Sacrificio del “tempo liberato” sociale e politico

–      Tensione tra tempo lento della cura e accelerazione sociale

–      Pressione verso l’immediata efficacia terapeutica

–      Scelte consapevoli di limitazione del tempo professionale

Identità professionale e trasmissione

–      Maggiore “esposizione” e minor protezione dal ruolo

–      Rapporto ambivalente con tradizione e maestri

–      Fluidità e adattabilità dell’identità professionale

–      Consapevolezza di essere una generazione “di transizione”

–      Legittimazione attraverso efficacia più che appartenenza

Dimensione sociale e politica

–      Difficoltà a trovare spazi per dimensione collettiva

–      Indebolimento della partecipazione associativa tradizionale

–      Percezione di appartenere a una “comunità aliena”

–      Frattura tra potenziale trasformativo e condizioni concrete

–      Rischio di ripiegamento sulla dimensione privata

Setting e nuove tecnologie

–      Ambivalenza verso le tecnologie (opportunità/minaccia)

–      Perdita di controllo su aspetti del setting online

–      Modificazioni qualitative della relazione terapeutica

–      Necessità di integrare modalità diverse preservando specificità

–      Ripensamento di teoria e tecnica per nuovi contesti

Emozioni e vissuti

–      Coesistenza di entusiasmo e insicurezza professionale

–      Solitudine professionale soprattutto nel privato

–      Necessità di ridimensionare ideali terapeutici

–      Preoccupazione per sostenibilità e marginalizzazione

–      Importanza delle reti di supporto professionale

Domande pratiche e organizzative

–      Frammentazione del tempo tra diversi ruoli e contesti

–      Continui cambi di “setting mentale”

–      Difficoltà nei confini tempo professionale/personale

–      Orari non convenzionali per venire incontro ai pazienti

–      Precarietà economica e difficoltà di accesso al credito

Richieste e bisogni dei pazienti

–      Prevalenza di richieste legate all’emergenza

–      Arrivo con auto-diagnosi già formulate

–      Richiesta di strumenti pratici più che comprensione

–      Approccio “consumistico” alla terapia

–      Difficoltà ad accettare i tempi lunghi del lavoro terapeutico

Di seguito vengono presentati in modo più dettagliato i contenuti emersi in ciascuna area tematica, corredati da estratti significativi dalle interviste.

3.4. Tempo e temporalità

Dall’analisi del corpus emerge una diffusa difficoltà nel gestire il bilanciamento tra ambito professionale e personale. Molti giovani terapeuti scelgono consapevolmente di limitare il tempo dedicato alla professione per preservare spazi personali e familiari:

Non è facile, tanto che ho fatto delle scelte, nel senso che ho scelto di dedicarmi solo allo studio privato in una parte della giornata. E se posso, prediligo le mattine, che sono quelle in cui i miei figli sono a scuola” (Intervista individuale)

Particolarmente problematico appare il “tempo liberato”, quello che non è né professionale né strettamente personale/familiare, ma dedicato alla dimensione sociale e politica:

Faccio fatica ad avere un tempo altro dalla professione […] Penso che non posso mollare niente, non posso lasciare andare nulla […] non posso autorizzarmi a prendermi il pomeriggio” (Intervista individuale)

La tensione tra il tempo lento della psicoterapia e l’accelerazione sociale contemporanea emerge come un conflitto strutturale difficilmente componibile:

Mi viene molto faticoso e molto pesante […] perché sono stata formata a fare questo lavoro veramente, dando corpo e tempo e spazio alla complessità” (Intervista individuale)

Particolarmente significativo è il conflitto con le richieste di immediatezza dei pazienti:

Mi arrivano tantissimi pazienti che fanno fatica a pensare che la terapia sia una cosa lunga. Perché che vuol dire? Ma quanto tempo? E io dico ai miei pazienti che non siamo yogurt, non abbiamo la data di scadenza attaccata sopra” (Focus group)

3.5. Identità professionale e trasmissione

L’identità professionale dei giovani terapeuti appare caratterizzata da una maggiore “esposizione” e minor protezione dal ruolo rispetto alle generazioni precedenti:

Io non so se sono in grado di farlo questo lavoro […] vedere tutto questo malessere è tanto. Ecco, questo mi ha messo alla prova” (Intervista individuale)

Il rapporto con la tradizione e i “maestri” emerge come ambivalente, oscillando tra vicinanza e distanza:

Posso confrontarmi con il mio supervisore quotidianamente […] mi accorgo che lavoro come lui” (Intervista individuale)

Come differenze, una cosa che ho notato è che i docenti sono arrivati a fare questo mestiere in modo molto diverso da noi” (Focus group)

L’identità professionale appare più fluida e multiforme rispetto al passato, con la necessità di integrare setting e modalità di lavoro differenti:

Credo di fare molta più clinica individuale di quanto immaginassi, rispetto a una formazione che invece avevo scelto per avere uno sguardo più ampio, gruppale e istituzionale” (Intervista individuale)

La costruzione dell’identità professionale passa molto attraverso le reti di colleghi e la supervisione continua:

Devo dire che io la rete con i miei colleghi di formazione l’ho mantenuta tanto. Anche a livello di supervisioni, docenti, gruppo di appartenenza” (Focus group)

3.6. Dimensione sociale e politica

Emerge una significativa difficoltà a trovare spazi e modalità per una dimensione collettiva del lavoro. Molti terapeuti si percepiscono come parte di una “comunità aliena”:

A volte mi penso come una come, quindi come una piccola comunità. Se penso magari ai miei colleghi, ai nostri colleghi, a noi, è come se fossimo delle piccole comunità un po’ aliene in questo mondo fatto di altro” (Focus group)

Si nota un generale indebolimento della partecipazione alle forme tradizionali di vita associativa, pur mantenendo vivo l’interesse per la dimensione sociale:

Ultimamente nell’ultimo anno ho cercato di organizzarmi in maniera da vivere in un modo più sereno, sia la professione, sia altri spazi miei personali” (Intervista individuale)

La questione dell’impatto sociale del proprio lavoro è molto presente ma vissuta in modo problematico:

Pensavo che la psicoterapia sia un diritto […] in una società ideale. Io penso che la psicoterapia dovrebbe essere considerata parte integrante del sociale” (Intervista individuale)

Credo che la psicoterapia sia una cittadella assediata […] però credo che sia importante mantenere un po’ più vicino questo mondo” (Focus group)

3.7. Setting e nuove tecnologie

Le nuove tecnologie vengono vissute con profonda ambivalenza, come opportunità e come minaccia:

Se devo pensare a una cosa che mi ha sorpreso, che mi ha schiacciata direi è l’online; quando ho iniziato la professione, il pensiero di fare psicoterapia online non c’era, non è che era assurdo, non c’era proprio” (Intervista individuale)

Le piattaforme hanno portato cambiamenti significativi, inclusa una perdita di controllo su alcuni aspetti del setting:

Sulla piattaforma mi sento un po’ passivizzata, non posso contattare per email una paziente che non si presenta” (Focus group)

L’altra volta sono stata in pensiero per una settimana per una paziente che non si è più fatta sentire […] non avevo possibilità di contattarla […] però invece la responsabilità terapeutica ce l’ho tutta io” (Intervista individuale)

Emerge una differenza qualitativa nella relazione online rispetto a quella in presenza:

Sembra di avere a che fare con dei pazienti un po’ più selvatici […] Sembrano già più addomesticate le persone che vengono in studio, anche se è la prima volta che vedo uno psicologo in studio” (Focus group)

3.8. Emozioni e vissuti

Accanto all’entusiasmo per il lavoro clinico emergono insicurezza e timore di inadeguatezza:

La paura di non essere mai all’altezza, di sbagliare […] e, nonostante le incertezze, continuare ad esserci” (Intervista individuale)

All’inizio, quando ho avviato la professione, ero felicissima e non vedevo l’ora […] però oggi tutto questo malessere è tanto” (Focus group)

La solitudine professionale rappresenta un tema ricorrente, soprattutto per chi lavora in studio privato:

Quello in studio è un lavoro solitario […] sento un grosso stacco tra un lavoro con tante persone, con la possibilità di confrontarsi sulla stessa situazione clinica, e il lavoro in studio” (Intervista individuale)

Emerge un senso di complessità che a volte sconfina nella delusione:

Io sento questa cosa, non so se chiamarla delusione […] sento una grande complessità nel lavoro in generale […] mi sembra tutto molto complesso” (Focus group)

3.9. Domande pratiche e organizzative

L’organizzazione pratica è caratterizzata da una forte frammentazione del tempo tra diversi ruoli e contesti:

Per due ore faccio orientamento narrativo nei licei, poi faccio due sedute con dei pazienti, e poi seguo un progetto a scuola… È un po’ difficile cambiare ogni volta d’abito e non essere stanchi per questo” (Intervista individuale)

Per chi ha famiglia, l’organizzazione professionale è fortemente condizionata dalle esigenze familiari:

Lavoro mezza giornata. E se posso, prediligo le mattine, che sono quelle in cui i miei figli sono a scuola […] gli appuntamenti che metto sono sempre basati sulla mia organizzazione familiare” (Intervista individuale)

Gli aspetti economici e di sostenibilità emergono come una preoccupazione significativa:

La precarietà non fa bene a nessuno […] un mese può cambiare anche di 500€” (Focus group)

Se io voglio andare, come già ho provato, ad andare in banca a chiedere un mutuo […] mi ridono in faccia” (Intervista individuale)

3.10. Richieste e bisogni dei pazienti

Emerge una forte prevalenza di richieste legate all’emergenza e all’urgenza:

C’è un bisogno urgente di ascolto, di risolvere alcune patologie” (Focus group)

I pazienti arrivano spesso con auto-diagnosi già formulate:

Arrivano i pazienti con una diagnosi perché sono andati su Internet e si sono già fatti la loro idea […] arrivano con dei test già eseguiti perché su Internet trovi anche il test di autodiagnosi” (Intervista individuale)

Si registra un cambiamento qualitativo nei modi di presentarsi e chiedere aiuto:

I pazienti nella piattaforma è come se siano un po’ più selvatici […] perché loro prendono ‘sto telefono, lo muovono, una situazione molto diversa dalla situazione in studio, dove sembrano più ‘addomesticati’ anche se è la prima volta che vedono uno psicologo” (Focus group)

Particolarmente significativa è la crescente richiesta di etichette diagnostiche:

È la quantità di richieste che fanno i giovani che sono orientati a ricercare un’etichetta […] vogliono saperlo, per esempio, se sono autistici” (Intervista individuale)

La tensione tra la richiesta di soluzioni rapide e il tempo necessario della terapia costituisce un tema ricorrente:

Nel momento in cui questa emergenza un po’ si allontana, comunque trova un senso, e proviamo un po’ a lavorare su altre questioni […] è come se non ci fosse disponibilità” (Focus group)

 

4. Riunione di rispecchiamento 

La riunione di rispecchiamento tra i partecipanti alle interviste individuali e ai focus group (Martina Ascone, Flavia Bene, Claudia Cardinale, Elisa De Vita, Letizia Monistero, Angelo Pasquini, Virginia Roghi, Rosa Scannapieco, Simone Schirinzi) e il Comitato di Redazione di Plexus (Stefano Alba, Ugo Corino, Giovanni Di Stefano, Gabriele Profita, Giuseppe Ruvolo) e i collaboratori alla redazione del numero (Giulia Ajovalasit, Roberto Ardilio, Federica Fuoco, Giampiero Genovese, Paolo Guaramonti, Valentina Lo Mauro, Umberto Marrone) è stata introdotta nel processo di indagine come momento conclusivo nel quale vengono presentati i risultati del lavoro ai protagonisti che hanno aderito alle interviste. Questo momento è suggerito dalle procedure di ricerca qualitativa partecipata, con lo scopo principale di comunicare i risultati ed ottenere dai protagonisti un feedback su quanto si ritrovano/riconoscono in essi ed, eventualmente, avere l’opportunità di precisare o approfondire alcuni contenuti. Ai partecipanti era stata inviata la stesura dei risultati due settimane prima della riunione. Molti intervistati non sono presenti e lo hanno comunicato prima, segnalando motivazioni di tempo (sic!) ed impegni personali.

La riunione è guidata da due colleghi del comitato allargato, gli altri possono intervenire liberamente.

Riportiamo la trascrizione intera della riunione.

DI STEFANO: Intanto vorrei ringraziare chi è venuto stamattina a partecipare a questo incontro conclusivo. Come rivista Plexus, che abbiamo ripreso in modo consistente con un nuovo progetto da qualche anno, ci stiamo dedicando fondamentalmente a quelli che sono i destini della psicologia e della psicoterapia a vertice gruppoanalitico nella contemporaneità. Gli ultimi numeri che abbiamo curato sono sempre andati in questa direzione, esplorando aspetti come: che fine hanno fatto i gruppi? Come si declina oggi la trasmissione generazionale della psicologia e della psicoterapia? Abbiamo utilizzato in questi ultimi numeri sempre la metodologia delle interviste, cercando di raccogliere le rappresentazioni di testimoni diretti della professione. Il numero che abbiamo messo in cantiere, intorno al quale stiamo dialogando, ha come titolo “Il tempo della cura, la cura del tempo”.

Per esplorare questa linea di attenzione verso la contemporaneità e il lavoro della psicoterapia, ci siamo interessati particolarmente a come pensano e vivono la contemporaneità nella clinica e al di fuori della clinica, la relazione al mestiere oggi, e quindi la gestione dei tempi e degli spazi della cura, i colleghi che praticano la psicoterapia da qualche tempo – il nostro target è costituito da colleghi specializzati da 5 anni o meno. Attraverso contatti diretti e segnalazioni ci siamo rivolti agli specializzati di scuola COIRAG più o meno degli ultimi 5-6 anni delle 5 sedi presenti in Italia. Il modo in cui siete stati contattati è il frutto di una rete di conoscenze pregresse, non ha pretesa di rappresentatività. Ci siamo dati come criterio quello di identificare un certo numero di colleghi da intervistare individualmente o in focus group. Siete stati intervistati da colleghi che stanno partecipando alla costruzione di questo numero. Sono presenti, oltre al comitato di redazione della rivista, anche colleghe/i di relativamente giovane specializzazione che stanno partecipando alla costruzione del numero.

Ci siamo voluti avvalere delle potenzialità offerte dalle nuove tecnologie. Ci siamo impegnati a utilizzare le registrazioni attraverso la trascrizione automatica che offre Microsoft Word. Questa, naturalmente, restituisce un senso del discorso che non è raffinato dalla punteggiatura o dagli altri aspetti tipici di un testo scritto, ma abbiamo fatto noi questo lavoro di editing e di identificazione delle aree tematiche che emergevano dalle interviste. Le interviste sono state guidate da una traccia semistrutturata realizzata a valle di una serie di riunioni dal comitato di redazione che ragionava sui possibili focus da esplorare. La trascrizione è stata sottoposta ad un’intelligenza artificiale generativa. Questa è una frontiera dell’oggi che suscita curiosità, preoccupazioni, riflessioni. In questo momento abbiamo ritenuto di volerla utilizzare per due aspetti: il primo è la pulizia delle trascrizioni automatiche in modo da poter maneggiare delle trascrizioni più dotate di senso dal punto di vista grammaticale e sintattico. La seconda cosa, ben più importante, è il lavoro di analisi tematica dei contenuti delle interviste. Abbiamo sottoposto all’intelligenza artificiale generativa il corpus delle interviste che abbiamo raccolto grazie a voi e con voi, chiedendo di identificare i temi maggiormente ricorrenti e i cluster di contenuto maggiormente presenti.

Questo primo momento di analisi è stato oggetto delle riunioni successive del nostro gruppo di lavoro. In un processo che potremmo dire ermeneutico, abbiamo cominciato a interrogarci su questo primo testo di sintesi. Questo corrisponde alla prima parte del materiale che vi abbiamo mandato. L’emergere di ulteriori domande, identificate dal nostro lavoro di gruppo, è divenuta una lista di interrogativi che abbiamo nuovamente sottoposto al corpus attraverso l’intelligenza artificiale generativa, rintracciando possibili risposte. Questo contenuto costituisce la seconda parte del documento che vi abbiamo inviato. Quindi il documento che avete letto si compone di una prima parte di analisi tematica emergente dal corpus nel suo complesso, e una seconda parte corrispondente alle risposte che il corpus ci offre in risposta ad alcuni interrogativi. Naturalmente questo processo potenzialmente non si chiude mai, ma dobbiamo dargli noi una conclusione. Questa la cornice di metodo ed inquadramento del processo.

Oggi, come anticipato, siamo nel momento del rispecchiamento. In questa fase esploreremo se e quanto vi riconoscete in questo testo complessivamente. Successivamente, nella seconda parte del nostro incontro, andremo a esplorare gli aspetti che non sono emersi o alcuni dei temi che ci sembrano più salienti. È una giornata nella quale ci piacerebbe raccogliere le vostre reazioni al lavoro prodotto e condividere le riflessioni. Questo lo riporteremo nel numero che verrà pubblicato.

Contiamo di concludere il numero e metterlo a disposizione dei lettori entro la fine di marzo. Mi fermerei qua e chiederei a Roberto Ardilio di integrare e aiutarmi ad avviare la discussione.

ARDILIO: Giovanni ha già detto praticamente tutto, per cui non credo resti molto. Mi limito a menzionare brevemente le macro-tematiche. Confido nel fatto che abbiate letto il documento che vi abbiamo inviato. Sono emersi veramente tanti temi, ci vorrebbe un seminario per ognuno di questi.

Abbiamo posto delle domande sul tempo e sulla dimensione della temporalità. È emersa la principale tensione tra un tempo accelerato, dove sembra che dobbiamo correre, e invece un tempo lento, il desiderio di un tempo lento che consenta una maggiore riflessione.

Un’altra tematica è quella dell’identità professionale e della trasmissione. È emersa una tensione tra l’innovazione e la ripetizione – il fatto che innovare non sia ripetere – e il bisogno di innovare, quindi un’identità o uno statuto professionale che possiamo dire in transizione.

Un’altra tematica è quella della dimensione sociale e politica. Anche questa è una dimensione desiderata, di cui però si sente tutta la difficoltà della messa in pratica. C’è una grande voglia che la nostra azione professionale abbia uno spessore sociale e politico, ma è come se non si sapesse come fare.

Altra tematica è quella dei setting, i nuovi setting connessi alle nuove tecnologie, incluse le piattaforme con tutte le criticità che si portano dietro.

Abbiamo chiesto anche delle emozioni prevalenti: sono emerse emozioni come la solitudine, ma anche l’entusiasmo, un senso di sovraccarico e un grande disagio derivante dalle esigenze di sostenibilità della professione.

Le ultime due macro-tematiche sono quelle dell’organizzazione pratica della quotidianità e anche qua emergono i temi relativi alla temporalità, quindi il fatto di sentirsi di corsa, precari, di correre per non cadere e di fare tante cose, modalità e ambiti di intervento molto diversi e, quindi, di transitare da una all’altra.

Infine, abbiamo ragionato sulla domanda dei pazienti, la nuova domanda terapeutica. È emerso come questa domanda sia caratterizzata dalla richiesta di soluzioni immediate, da una concezione della psicoterapia come fast food. È emersa un’immagine che potremmo sintetizzare  nel “paziente yogurt”, come se avesse una data di scadenza.

Mi fermerei qua con la richiesta di ragionare insieme su cosa vi torna e cosa non vi torna di quanto emerso da questa analisi.

DE VITA: Buongiorno a tutti. La convocazione di questa riunione per domenica mattina alle 9 mi ha subito richiamato ad uno dei temi che abbiamo affrontato nell’intervista e rispetto al quale mi rivedo: la difficoltà a differenziare gli spazi, a trovare spazi che non siano meramente dedicati alla professione. Per quanto mi riguarda questi momenti fanno parte assolutamente di come io concepisco il mio lavoro: continuare a fare rete, continuare a confrontarmi con i colleghi e provare a stare dentro una rete. Lo sottolineo non per evidenziare un fastidio, ma perché ho sorriso e ho detto: ecco, già è chiaro il primo nodo! Rispetto al file che avete mandato, in linea generale vi dico che mi rispecchio assolutamente in tutto quello che è emerso. La lettura mi ha portato anche ad altre riflessioni che vi sottopongo.

Stavo provando a inserire alcune riflessioni rispetto alle aree tematiche. Per esempio, c’è una questione che sento molto forte e credo sia legata all’area della nuova domanda terapeutica. Ho un’utenza prevalentemente fatta da adolescenti e giovani adulti, e incontro una difficoltà estrema a farli stare in gruppo, a fargli fare gruppo, nonostante mi renda conto che ne hanno più che bisogno, veramente un’emergenza. La risposta che mi viene data continuamente è “io non voglio abbandonare il mio spazio individuale”. Questo mi pare molto in linea con tutte le riflessioni sia sul cambiamento della domanda sia su dove stiamo andando. Rappresenta di fatto una vera contraddizione perché io li penso in gruppo perché vedo che hanno difficoltà ad andare fuori da quella dimensione di individualità, verso dove va la nostra società, e loro mi rimandano “in gruppo non ci voglio stare perché non ce la faccio ad abbandonare il mio spazio individuale”. Quando propongo una sorta di accompagnamento, quando dico “entra in gruppo e facciamo anche le sedute individuali”, nonostante non ne abbiano bisogno, loro mi dicono “ma perché io devo investire di più? Mi devo fare una seduta individuale e pure quella di gruppo? Se io voglio stare in individuale voglio la terapeuta giusta tutta per me, il tempo della seduta tutto per me”.

L’altro aspetto, sempre riguardo a questa area tematica di come è cambiata la domanda della terapia fast food, è che mi arrivano i pazienti già con la richiesta della terapia ogni 15 giorni. Loro si fanno il setting e la terapia ogni 15 giorni. Quando chiedo perché, rispondono che vogliono fare terapia però non possono investire economicamente più di tanto. Quando propongo “e se facessimo un lavoro più regolare, settimanale, e pensiamo di concludere prima, quindi fare un patch e poi fermarci?”, loro rispondono “no, non voglio finire, non voglio fare un pezzo più breve. Io voglio che duri nel tempo, però lo facciamo diluito”.

L’ultima questione, che non so in quale area tematica inserire, ma ci ho pensato dopo aver letto il file, è la mia difficoltà rispetto al bonus psicologico. L’adesione al bonus psicologico è una misura che non condivido. Secondo me non fa altro che incentivare la precarietà e anche l’idea di un accesso alla psicoterapia usa e getta. È curioso che possano accedere al bonus psicologico soltanto gli psicoterapeuti e non gli psicologi. È una misura che incentiva l’idea di psicoterapia usa e getta, non nemmeno fast food. È vero anche che in molti casi è stata la possibilità di accedere ad un percorso psicoterapeutico che poi è continuato nel tempo, però sono stati rari i casi. Non sono stata d’accordo con la misura, però ho aderito perché mi sono detta “meglio di niente”. Ho pazienti che si pagano la psicoterapia con la borsa di studio e facendo baby-sitter. Ho aderito pur non condividendo l’iniziativa per mettermi più a disposizione possibile. È stata una scelta veramente ponderata, mi ha messo in difficoltà perché non ho aderito subito. Ho presenti queste due contraddizioni. Dopodiché, sovraccarico, mille complessità… come gestisco questa bellissima complessità che mi hanno insegnato che dobbiamo guardare? Sono sempre più convinta che vada guardata, però è difficile, difficile, difficile.

ROGHI: Elisa, dove operi e in che servizi? Mi sono persa questo pezzo.

DE VITA: Sono solo libera professionista, quindi lavoro in studio. Come psicoterapeuta sono anche consulente della Procura, il che significa che lavoro in emergenza e in contesti diversi, dalle scuole ai commissariati, nell’ascolto di adolescenti e in generale vittime di reati. Però prevalentemente in studio.

ROGHI: E territorio?

DE VITA: Palermo.

DI STEFANO: Beh, un inizio col botto, mi verrebbe da dire. Fortunatamente non tutto deve rientrare dentro i temi che sono emersi dall’analisi, anzi. Vi chiederei di andare proprio con questo spirito, con queste modalità. Proseguiamo pure e vi inviterei, oltre che raccontarci delle vostre reazioni al testo che avete ricevuto, anche a intervenire in relazione a quello che ci stiamo dicendo in questo momento.

 ROGHI: Se colgo l’occasione, a partire dall’ascolto di Elisa che parlava del bonus psicologo, ho detto “magari dopo la contatto e ci confrontiamo”, perché anche io ho aderito e ho varie esperienze in merito. Mi sembra un bel modo per fare uno scambio. Purtroppo, non dal vivo – io sono tanto grata di questa forma virtuale, ma dall’altra un po’ la soffro per le questioni con cui abbiamo aperto l’incontro con il dottor Profita che ci fa vedere le trasformazioni silenziose[1] che temo, da un punto di vista socio-politico, vanno osservate non poco.

La forma virtuale è una forma che apprezzo molto ma che tiene traccia in un modo che non è legato alla relazione faccia a faccia non virtuale. Chissà in quanti spazi rimangono i nostri scambi. Data l’epoca, temo sia un’informazione da tenere molto attenzionata sia sul piano virtuale sia su come si presentano i pazienti in studio. Ho il vissuto di tanti pazienti che non si sentono soli in studio. Senza introdurre un pensiero troppo paranoide, ma dato l’andamento storico-politico mi sembra che abbiano anche un po’ ragione. Quindi da tenere a mente anche nel momento in cui si lavora e in interviste di questo tipo: quante sono le variabili che vanno tenute a mente, che entrano silenziosamente nel contesto senza che vengano mai nominate, come sto facendo io adesso. Le altre le lascio aperte qua dentro, per ora mi fermo qui.

Vi ringrazio tanto sia dell’intervista, sia di questo momento a posteriori. La posizione che ho in questo momento, uscita dalla scuola, senza più tutti i tirocini non pagati, senza più tutte le richieste istituzionali, senza riconoscimento della mia soggettività, ma più libera di operare e di scambiare con chi mi riconosce il valore e me lo rispecchia, mi fa godere molto di più della professione e di queste occasioni di scambio. Rispetto a quando ho fatto l’intervista ora direi altre cose. Sono contenta di questo momento perché magari è l’occasione anche per farlo, quindi grazie ancora.

DI STEFANO: Assolutamente, Virginia, è proprio l’occasione per dirci altre cose, ed è l’occasione soprattutto per segnare il fatto che non abbiamo ritenuto di raccogliere dati immutabili. Stiamo esplorando insieme un qualcosa che non conosciamo fino in fondo, anzi molte cose non le abbiamo ancora chiare.

AJOVALASIT: Volevo chiedere a Virginia se le va di rispondere e se poteva raccontarci qualcosa in più di questa sensazione dei pazienti che arrivano in studio e che non si sentono soli. Mi ha incuriosito molto questa cosa che hai detto.

ROGHI: Una cosa che ho notato dell’ultimo anno, soprattutto, è quanti lasciano il telefono fuori dalla stanza dello studio. All’inizio la pensavo come una forma di rispetto per non essere disturbati, poi una paziente mi ha detto che nel suo caso è per Siri. In che senso? L’ha detta ironicamente, un po’ come prima il dottor Profita ci ha fatto vedere velocemente le trasformazioni silenziose. La paziente ha fatto l’esempio: “Quando facciamo la seduta, su Instagram mi arrivano le indicazioni di cose di cui abbiamo parlato, quindi prodotti, marketing”. Ora non ho pazienti più con tratti o aspetti effettivamente psicotici, mi arrivano riflessioni con dei tratti paranoidi un po’ più strutturati, però sono molto angosciosi e legittimi ma un po’ diversi. Dai pazienti un po’ più sul lato nevrotico mi colpiscono annotazioni di questo tipo. È onestamente una domanda che ribadiscono in modo paranoide – perché insomma sono circondata da psicoterapeuti; quindi, ho anche l’occhio di questa consapevolezza. Però è una cosa a cui penso. Come dare valore anche a questo aspetto di cui comprendo, storicamente parlando, la preoccupazione.

Mi viene da dirlo così: avrei molta voglia di un incontro. Confido tanto nell’occasione di rivederci con chi può, come si può, dal vivo, in una forma che permetta questa tipologia di dialogo fra pari su un punto di vista professionale, però anche dal vivo, proprio per disambiguare alcune di queste questioni anche di petto, mettiamola così.

 SCHIRINZI: Se posso prendere parola, mi riaggancio perché mi sento in questo momento di essere un’immagine, una foto dentro al gruppo, sono in auto e non potevo mettere la videocamera. Mi incuriosiva molto, mi è rimasto molto in mente come siamo qui, di domenica mattina, a fare questo confronto, ad aver partecipato a questo studio.

Le parole di Di Stefano mi hanno messo molta curiosità riguardo questa rete a cui indicibilmente apparteniamo. Siamo qui per contatti diretti – ad esempio io ho avuto colleghi che mi hanno mandato un messaggio privato per partecipare a queste interviste, a questa ricerca. Mi incuriosiva che campione rappresentiamo, che rete rappresentiamo. Perché l’idea è che siamo dei colleghi che sono qui di domenica mattina, non tutti lo sono. Non tutti i colleghi forse la domenica mattina si danno la disponibilità a fare una riunione oppure scelgono di essere qui comunque nonostante siano in macchina. Quindi non so, forse questa è una domanda che rivolgo a tutti: che rete siamo, che tipo di gruppo siamo?

RUVOLO: Un tempo la domenica era il giorno del Signore. E il giorno del Signore può essere inteso in due modi molto differenti. Da un punto di vista più storico e culturale, il giorno del Signore era il giorno dedicato alla spiritualità. Da un punto di vista storico-sociale, il giorno del Signore era il giorno in cui nelle società agricole latifondiste, durate fino alla prima parte del ‘900, si andava dal signore, dal latifondista, per onorare il signore in terra, non il signore in cielo. Poi il giorno della domenica è diventato il giorno del tempo libero, il tempo libero dedicato in qualche maniera alla famiglia, a se stessi. Quindi il tempo della vita privata, se possiamo dire così. Credo che questo sia il significato prevalente oggi: il tempo dedicato alle nostre relazioni private, personali, ai nostri bisogni privati.

E qui il tema del privato si contrappone al tema del pubblico e al tema del lavoro, perché il lavoro è il versante pubblico. Credo che la sottolineatura che fate riguardo al nostro incontro domenicale è una sottolineatura che entra direttamente nel merito delle questioni che riguardano i principi regolatori della nostra vita: tra il personale e il professionale, ma anche tra il privato e il pubblico, ed anche tra l’individuale e il politico-comunitario.

Giustamente Elisa inizialmente ricordava che per lei, e penso che questo lo possiamo sentire anche ciascuno di noi, questa riunione ricade nell’ambito professionale. Tuttavia, credo che sia limitante dire che è solo l’ambito professionale perché si è parlato di reti e si è parlato di sociale nel senso politico del termine. In fondo, fare rete professionale non ha un carattere solo professionale, immediatamente assume un carattere politico. Quindi questa riunione, che poi è anche ricerca, entra in un altro ambito del pensare la nostra vita, il nostro lavoro, i rapporti che abbiamo con il sociale e la comunità.

Questi significati si pongono in uno spazio che non è così chiaramente definito, e questo credo che attenga proprio il nostro lavoro. Io non so quanto abbiamo piena consapevolezza del fatto che il nostro lavoro implica contemporaneamente dimensioni personali. Questo lo sappiamo dal tipo di approccio che abbiamo alla psicoterapia, in particolare che non è un’attività impersonale. La psicoterapia di cui ci occupiamo è una “cosa” molto personale, che passa attraverso quelle famose trasformazioni invisibili, Virginia, che vanno a toccare le sfere della soggettività. Altrimenti la psicoterapia che pratichiamo non ha nessun effetto, almeno questo è quello che riteniamo. E quindi è molto professionale e molto personale. E direi che è molto politico ed è molto sociale. Allora il problema è che se da un lato non possiamo separare nettamente queste sfere – e naturalmente non le dobbiamo neanche confondere – dall’altro credo che per tutti noi sia estremamente difficile praticare questi spazi e avere consapevolezza del fatto che qualunque cosa noi facciamo ha ripercussioni di tipo professionale e di tipo politico, e di tipo sociale, di tipo soggettivo e di tipo oggettivo.

Avete assolutamente ragione dunque: questa nostra riunione va a toccare uno dei punti cardinali dei temi della nostra indagine. Ma qui registriamo una difficoltà – e questo mi fa venire delle altre domande anche molto concrete: qualcuno prima diceva che dovremmo poterci incontrare di presenza per parlare di queste cose, delle cose che ci sfuggono, ma quanta voglia abbiamo di dedicare tempo di presenza, di dedicare anche risorse economiche per questo? Quindi la tecnologia qui ci viene incontro per poter accedere comunque a questo spazio di riflessione, ma senza investire troppo, senza togliere tanto altro tempo alle nostre vite professionali e personali. La professione serve anche a mantenerci in vita, serve anche alle nostre povere o ricche economie.

Uno dei temi dell’indagine che io trovo più stimolante è proprio lo spazio del politico, tra il personale, il professionale, l’individuale, il privato e il pubblico. Questa riunione è qualcosa che si insinua in questo spazio, che si infila in questi meandri. Riconoscerne tutte le valenze credo che sia estremamente importante perché vuol dire avere consapevolezza di praticare a livelli che se non sono direttamente connessi alla nostra convenienza più immediata – parlo dell’economia piuttosto che della cura delle relazioni – sono spazi che ritengo personalmente di valore incommensurabile per poter coltivare la dimensione politica, comunitaria, pubblica e contrastare questi processi di cui parlava Elisa, a proposito della pervasività dell’individualismo, che diventa un ostacolo insormontabile e ci rigetta sempre e di nuovo in una dimensione privatistica e individualistica. Perché privato vuol dire questo: privo di, vuol dire escludere, in particolare gli altri. Mi scuso di averla fatta lunga.

DI STEFANO: No, è giusto, assolutamente, perché in realtà non è un giro di tavolo, è un dialogo. Come dicevo poco fa, non abbiamo raccolto dati, abbiamo stimolato e condiviso attorno ad un tema che stiamo continuando ad esplorare tutti insieme. È assolutamente prezioso. Io ho curiosità naturalmente di sentire più persone possibili.

FUOCO: Volevo dire due parole anch’io. Intanto mi è dispiaciuto non essere intervistata – io sono entrata nel gruppo di lavoro quando il processo era già avviato. Vi ringrazio per questo momento, perché è forse la prima volta all’interno di COIRAG – io mi sono specializzata a dicembre, sono appena uscita dalla scuola – e il senso di svezzamento, di smarrimento l’ho sentito, l’ho condiviso anche con le mie colleghe di anno, oltre che con colleghi di altre scuole che si sono appena specializzati.

Io di solito il sabato e la domenica li dedico all’attività politica e incontro il mio gruppo di compagni. Oggi avrei avuto una riunione, un momento di riflessione sul precariato insieme ad altri che lavorano in altri ambiti; quindi, sarebbe stato un confronto anche con altre figure professionali. Però ho deciso di essere qui perché mi mancava uno spazio all’interno della mia comunità di riferimento professionale su tutti i temi che sono stati affrontati nelle interviste.

Leggere il testo è stato come un pugno allo stomaco perché sono stati toccati temi molto caldi. Un aspetto che mi ha colpito e mi ritorna in mente è quello della scelta. C’era un passaggio in cui alcuni colleghi intervistati dicevano “ho dovuto fare una scelta e ho deciso di ritagliarmi del tempo che non fosse dedicato alla professione”. E quindi mi sono chiesta: siamo ancora nelle condizioni di poter scegliere? Mi sono ritrovata spesso in una tensione continua tra il desiderio e lo stato di necessità, anche se quello che faccio mi piace molto. Ho difficoltà ad avviare uno studio condiviso con tre colleghe. Nonostante abbia ricevuto degli invii, i pazienti non hanno chiamato oppure se qualcuno è venuto mi poneva sempre il problema del pagamento: “non posso pagare, come facciamo?”. E quindi ho continuato a fare quello che faccio. Il mio lavoro è quello di psicologa all’interno di progetti di educativa di strada e di progetti educativi all’interno delle classi delle scuole.

Quel senso di solitudine, sentendo anche i colleghi che parlano di professione solo all’interno dello studio, è molto forte. E io in questo momento non posso scegliere di lasciare quello che faccio per dedicarmi allo studio privato. Quindi sono in questa fase di continua tensione tra queste due dimensioni: il desiderio e la necessità.

Ho trovato un antidoto che da un lato è quello di continuare a sentire colleghi, costruire una rete, dall’altro è quello di provare a portare tutto quello che ho imparato in questi anni all’interno dei miei contesti di lavoro che non sono esattamente il setting clinico classico. Il setting poi ce l’hai in testa, lo puoi portare in strada, lo puoi portare al centro educativo, nelle scuole. Mi sto aggrappando a questa cosa qui: sono una specializzata COIRAG, ho una formazione e quindi provo a portarla nei vari contesti che abito. Questo mi sentivo di condividere oggi.

DI STEFANO: Grazie Federica, della passione e della fatica, mi verrebbe da dire.

GUARAMONTI: Mi collego a quello che diceva Federica perché mi arrivava forte il ricordo dell’emozione di aver sentito durante l’intervista di gruppo tutto l’eco dei commenti di quello che era il vissuto dei colleghi rispetto al mio vissuto personale. Rispetto a quanto questa fatica di vivere tra antinomie, tra desiderio e aspetti reali e concreti rispetto alla cura del tempo, al tempo della cura, sia un vissuto estremamente condiviso.

E addirittura questa domenica non è soltanto la fatica della connessione, ma è anche che non soltanto sottraggo tempo al mio personale alla domenica, ma è una domenica che purtroppo per me è ancora lavorativa – io ancora ho un lavoro che mi impegna la domenica, quello in comunità. Quindi dovrò salutarvi anche prima perché devo andare poi a lavorare. Per me è stata un’esperienza entusiasmante. Rileggendo lo scritto, mi viene più importante sottolineare, rispetto al tema della solitudine, che sia sulle nuove piattaforme o che sia con l’esperienza dello studio, è l’elemento che davvero secondo me più rischia di destabilizzare e di far perdere un po’ la nostra capacità di generare senso. Potersi confrontare sia con la redazione di Plexus che con gli intervistati attraverso il lavoro insieme è stato per me estremamente prezioso anche dal punto di vista personale, in una fase di vita in cui sto scegliendo anche come organizzare in modo diverso gli spazi professionali e personali.

ARDILIO: Mi colpisce molto, quasi ponendomi dall’esterno – perché io condivido con Giulia, con Umberto e con Paolo il fatto di essere in questa redazione ad occuparci di qualcosa che ci riguarda da molto vicino. Potevamo tranquillamente far parte degli intervistati. Mi colpisce molto, provando a fare questo esercizio, che ci sia un grande vissuto di solitudine. Perché siamo gruppo-analisti o quantomeno veniamo da lì, allora in qualche modo questo è proprio il nostro tema.

Nell’intervista, nel corpus dell’analisi dell’intelligenza artificiale c’erano alcune espressioni che mi hanno colpito rispetto alla nostra comunità professionale, che erano “una comunità aliena” o una “cittadella assediata”. Mi chiedo un po’ cosa custodiamo e provo a farmi questa domanda al di là delle categorie. Ho l’impressione spesso che ci perdiamo un po’ rispetto alle etichette che attribuiamo al tempo. Sembra che ci sia un tempo per il sociale, un tempo per il lavoro, un tempo per la famiglia, tempo libero. Quello che faccio io, me lo faccio davvero anche la sera con gli amici. Quando mi chiedo che faccio stasera, provo a pormi la domanda da un punto di vista della qualità: mi chiedo qual è per me un tempo di qualità oggi. E mi colpisce molto Federica quando dice che lei dedica il sabato e la domenica alla politica. Non avevo mai sentito nella mia vita questa cosa. Ecco, vorrei rilanciarvi la questione da questo punto di vista: che cos’è per noi, per i nostri pazienti, un tempo di qualità, al di là delle etichette?

MONISTERO: Provo a rimandare qualcosa anch’io. Ricordo la sera del collegamento per il focus group per queste interviste, era tardi, veramente tardi. Però è stata una bellissima occasione di confronto, soprattutto perché c’erano belle risonanze e rispecchiamenti. Erano davvero tantissimi. Chiaro che il campionamento in questo ha fatto il suo lavoro perché eravamo tutti specializzati relativamente da poco tempo e quindi molti vissuti si potevano quasi non solo paragonare, ma erano davvero troppo simili.

Anche stamattina quando ho sentito parlare Elisa, mi sono assolutamente sentita rispecchiata nuovamente. Sarà perché l’utenza che seguiamo è simile, però sposo tutto quello che ha detto. E anche le riflessioni che ha portato sono riflessioni e domande che io mi faccio continuamente, forse con un po’ meno rabbia – mi dispiace quando sento Elisa, la sento sempre un po’ rabbiosa. E mi dispiace che a me invece manchi un pochettino di questa rabbia, perché è come se un po’ mi fossi messa comoda di fronte alle cose che mi generano frustrazione e questa cosa non mi piace. Non dico che getto la spugna rispetto a delle cose, però resto un po’ impotente. È verissimo che delle cose sono cambiate rispetto a quando abbiamo fatto l’intervista. Mi colpiva quanto effettivamente delle cose si fossero mosse, fossero nate nuove riflessioni, nuove idee, anche a partire dallo spunto del file che avete generato. Una delle cose che mi è venuta in mente rispetto alla questione del rischio che si sente, di cui si parla, della marginalizzazione del nostro lavoro in quanto dinamici, in quanto gruppo-analisti, in quanto psicoanalisti, era un’idea che mi ha contagiato in questi anni, ma che sempre meno mi sta convincendo.

Questo lo dico sia per quanto riguarda i lavori che faccio fuori dallo studio privato, sia per lo studio privato e le piattaforme. Mi arrivano sempre più pazienti che hanno già avuto delle esperienze brevi o meno brevi con altri terapeuti di altri approcci e che non si sono sentiti sufficientemente presi in carico. Non lo dicono con criticità particolare, secondo me nemmeno con troppa consapevolezza. Si limitano a dire “ho fatto tre mesi con questo terapeuta, mi ha aiutato per questo pezzetto, mi è stato super utile e quindi abbiamo chiuso la terapia. Adesso a distanza di sei mesi ho un’altra questione, però non vado a cercare quello, io ne voglio un altro”. Forse veramente inconsciamente fanno questi passaggi e sono tantissimi, più di quelli che mi aspettavo. E poi si mettono comodi invece una volta sperimentata la possibilità di prendersi un tempo diverso, di stare sulla complessità, su un’emotività diversa. Quindi secondo me questo dato andrebbe raccolto e valorizzato maggiormente perché sì, c’è una moltitudine di approcci nuovi, di modelli sicuramente un po’ più sul pezzo rispetto alla vendibilità, al consumismo e quant’altro. Però in realtà il dato che mi arriva, almeno in questo momento, è che la gente apprezza il nostro metodo di lavoro.

E poi, rispetto alla questione del gruppo, ci sono arrivata perché è stato pensato, strutturato. Quando abbiamo fondato il nostro primo gruppo al terzo anno con Giulia – parlo di quello che abbiamo condotto per quasi due anni insieme nello studio privato, adesso lo conduco da sola perché Giulia poi si è trasferita – è stato pensato e fondato per dei pazienti che facevano terapia ogni due settimane per problemi economici importanti. E sulla scia del nostro entusiasmo, del desiderio fortissimo di fare un gruppo, delle caratteristiche di questi pazienti che ci hanno suggerito la possibilità di metterli in gruppo, abbiamo fondato questo gruppo che si incontrava ogni 15 giorni. Ha funzionato per quel pezzo, continua a funzionare oggi, almeno per me, allo studio privato, però in maniera diversa e inaspettata. Perché adesso riesco a inserire in questo gruppo pazienti che, come diceva Elisa, non sono molto disposti a rinunciare al loro tempo individuale di terapia, però sono un po’ più predisposti a farlo due volte su quattro. Nel senso che la terapia multimodale in questo senso offre la possibilità di partecipare a questo gruppo che da sempre si incontra ogni due settimane e poter fare nella settimana in cui non c’è il gruppo invece l’individuale. Quindi offrire la possibilità di essere guardati in modi diversi. Andando assolutamente a sposare quelle che sono le loro necessità, in qualche maniera ho creato un compromesso e devo dire che, inaspettatamente, mi sta molto agevolando. Questa resistenza a fare il gruppo, quindi a cercare tempo individuale, non volerci rinunciare che diceva Elisa, io lo sento pure fortissimo. Quindi avere un dispositivo di questo tipo mi ha agevolato, mi ha permesso di portare avanti la possibilità di offrire la terapia di gruppo soprattutto a ragazzi così giovani o con difficoltà economiche. Quindi aprirei la riflessione sulla possibilità di pensare a queste terapie multimodali un po’ di più.

Un’altra cosa: a proposito di aver fatto più esperienze terapeutiche prima di arrivare allo studio, da me arrivano già diagnosticati. Solo che queste diagnosi non sono su quote narcisistiche o un disturbo di personalità o disturbo d’ansia – vabbè l’ansia gliela mettono tutti – ma arrivano sulle neurodivergenze. Questo emergeva un po’ dall’intervista. Sulle neurodivergenze e sui DSA, finché te lo dice un ragazzo di 14 anni vabbè, ma quando te lo dice un trentacinquenne “mi hanno fatto un anno fa una diagnosi di DSA”, tu dici “ma scusa, ma con quale senso? Perché? A che cosa ti serve? Che cosa ti dice?”.

Loro è come se avessero trovato quell’etichetta che però nemmeno è un’etichetta diagnostica come la intendiamo noi. È qualcosa che veramente appartiene ad un’altra epoca valutativa, ha tutto un altro senso rispetto all’apprendimento, ai livelli cognitivi, che non c’entra niente col discorso dell’identità, ma diventa parte dell’identità in qualche maniera che va un po’ lavorata.

E cosa mi porta a partecipare a questi incontri notturni o di domenica mattina, quei momenti sacri, quelli ancora rimasti di tempo per sé? Sono legami personali per quanto mi riguarda. E non me ne pento mai, dopo che partecipo, chiaramente. È sempre più facile a farsi che a dirsi – la parte del dirsi è faticosissima. Però per fortuna i legami che ho convocato, la maggior parte di voi, mi motivano a sufficienza.

ROGHI: Io colgo l’intervento di Letizia un po’ per salutarvi, visto che purtroppo avevo un impegno che si sovrapponeva, e per ribadire il desiderio di incontrarvi, che sia nelle forme ex-fiesolane. So che sono molto in evoluzione e su cui però c’è anche tutta la velatura di aspettativa di chi può entrare, non può entrare, numero di partecipanti, liste di attesa. Invece ci sono delle intenzioni che forse si può provare a tutelarle. Come diceva bene Letizia, in alcuni casi grazie alla familiarità affettiva si possono sviluppare comunque. Ma magari troviamo o esistono già – essendo appena uscita anch’io dalla specializzazione, magari mi sapete dire meglio voi – spazi di incontro. Io ribadisco questo desiderio perché è un aspetto che mi manca. Mi immagino di fare rete in questo modo.

Un’ultima osservazione che volevo portare riguarda quando si parla di psicodinamici. È un’etichetta molto complessa perché ho tanti colleghi che si occupano di terapie transazionali, tanti altri approcci, e abbiamo modi di intendere proprio l’identità della psicodinamica diciamo un po’ differente. Quello che trovo in questo contenitore COIRAG in senso un po’ più ampio e di stampo psico-socio-dinamico ha proprio un valore a sé: il tentativo di tenere a mente tutti questi livelli, anche in ogni singolo pensiero che cerchiamo di condividere, ha una sua identità.

Poi condivido una preoccupazione che nasce dal confronto con colleghi principalmente tedeschi, inglesi e spagnoli – nello specifico Francoforte, Barcellona e Londra, per ridurre vagamente il campo – per quanto concerne il modo in cui si accede all’università, si identifica la professione di psicologo/psicologa e poi si accede alle specializzazioni. Credo che anche se sembra un punto secondario per il livello di specializzazione a cui siamo, in un’ottica trentennale, lo sviluppo delle professioni, l’intervento delle AI, la riduzione di tutta una serie di mestieri tecnici e la rivalorizzazione di mestieri speciali andati su relazione e aspetti di soft skills – diciamo per ora continuiamo a definirlo così – perché non diventino mestieri più collegati ad aspetti puramente metrici e quindi calcolabili su dei grafici, sia utile fare una riflessione su come si accede a questa professione. È un punto che oggi mi permetto di aggiungere, forse va un po’ fuori dalle righe del lavoro, ma mi sento un po’ legittimata da Giovanni Di Stefano, dalla premessa che ha fatto. Quindi colgo l’occasione per comunicarlo. Magari c’era altro modo per parlarne, se non ci sarà, vi ringrazio per quello che c’è stato oggi.

DI STEFANO: Grazie molte Virginia. Su un piano informativo ti posso solo segnalare che COIRAG ha una rete di specializzati alla quale non so se sei iscritta, e, inoltre, in questa rete, c’è sempre il Laboratorio di Gruppoanalisi. Questi due contesti offrono la possibilità di partecipare a tante iniziative. E nel Laboratorio di Grupponalisi ci sono diversi spazi per lo scambio professionale. Naturalmente non vuole essere un’informazione promozionale, ma solo del tipo: se cerchi trovi qualcuno, e non ne trovi pochi per fortuna. Tutto qua. Ma intanto grazie per essere stata con noi fino a questo momento, almeno in relazione ai tuoi impegni.

ROGHI: A presto e buona domenica, grazie mille.

 DI STEFANO: E a te grazie.

CORINO: Io proverei a dire qualcosa, però prendendo un po’ le distanze. Intanto vi dico due o tre cose che pensavo in questo momento. Uno, che il fatto che ci vediamo di domenica e in questo modo: penso che questa è una ricerca carbonara, nel senso che non ha nessuna ufficialità, quindi non è fatta in una dimensione istituzionale. E, guarda caso, forse è per questo che anche la domenica è lavoro e non è lavoro, è politica e sociale e individuale.

Secondo, pensavo che se guardo questa come una foto, il materiale che è emerso, penso alcune cose. La prima: è molto conformista. Se penso alla mia generazione che voleva fare la rivoluzione col sociale, adesso invece abbiamo prodotto dei conformati. Volevamo socializzare e invece abbiamo sparpagliato la situazione. Quello che mi colpisce di tutto questo materiale è che c’è poca critica, c’è molta sofferenza, ci sono un sacco di interrogativi, ma non ci sono prese di posizione. Ve ne siete accorti?

D’altra parte, ognuno di quelli intervistati rappresenta tendenzialmente se stesso, non è portavoce di una gruppalità. Mi sono segnato una serie di cose: non c’è nessuna riflessione sull’università, che ha creato molto conformismo, e ancora meno sulle scuole di specializzazione. Nel testo che ho letto non ho trovato nessuna critica né all’università né alle scuole di specializzazione. Nessuno che si sia posto il problema di dire “ma sono 400 Scuole, che è una follia!”. Seleziona il mercato? Eh beh, è vero l’idea che abbiamo dietro è che seleziona il mercato, ma il mercato non seleziona un piffero, o seleziona molto poco. Tant’è che io non ho trovato qualcuno che ha detto “ma come mai nella scuola che ho fatto non c’è stata nessuna selezione? Andavano bene tutti?!”. L’Ordine – nessuno ha fatto riferimento all’Ordine che fa una psicologia da beauty farm. Il discorso sulle piattaforme, qualcosa è venuto. Il fatto che oggi la richiesta è fondamentalmente di una psicoterapia nel privato, secondo un modello classico, duale, che tiene poco conto del sociale. Ma che ognuno dice “si salvi chi può”. La richiesta… è adesso? Io poi la trasformo. Questo è un altro punto: siamo passati da una psicologia che si occupava del bisogno a una psicologia che si occupa del consumo. Questi ultimi esempi che portava qualcuno di voi… è cominciato con lo sportello scolastico, non vi ricordate? Adesso ne provo un altro. Poi vado a fare anche un po’ di psicologia, che male non mi fa.

E poi altro: i pazienti chiedono, sono molto individualisti o chiedono una psicologia molto individualizzata? Non vogliono fare gruppi, ma i terapeuti vogliono fare gruppo? Avete visto qualche cosa che proponga di surrogare il sociale o il servizio pubblico che ormai è andato? È stato completamente travolto dalla crisi. E abbiamo trovato qualche gruppo che prova a surrogare il sociale nel privato? Neanche nel terzo settore.

Ultimi punti: questo nodo, un’altra cosa che non ho trovato dentro il materiale è questa adesione più o meno inconscia o inconsapevole, o poco consapevole, a una psichiatria su cui il modello che stiamo rischiando di assorbire è di una psicoterapia molto identificata con la dimensione medica. O comunque con una psichiatria da cui non riusciamo veramente a differenziarci, perché la psichiatria ormai è fortemente farmacologica, biologica e medicalizzata. Non ho sentito nessuna ripresa di un discorso sulla psicologia, la sociologia, le scienze umane e quindi la difesa del filone psicoterapico su questo versante. Ovviamente è un materiale interessante. Allora dove andiamo a rilanciare una critica su questo materiale? Oppure lo prendiamo come materiale un po’ democristiano, va bene tutto!?

DI STEFANO: Grazie Ugo perché di fatto il tuo intervento ci introduce nella seconda parte. Hai richiamato esplicitamente le note che avevi scritto in occasione della nostra ultima riunione del gruppo di lavoro che avevamo immaginato di riprendere. Penso che rispetto al tempo che abbiamo a disposizione questo sia un buon momento – la seconda parte del nostro incontro di oggi è proprio cercare di esplorare quello che questo corpus non ci ha detto.

CORINO: Ah, non c’è neanche nessuna critica ai docenti, io non ho sentito una critica.

 DI STEFANO: È proprio sul piano del pensare criticamente quello che ci siamo detti, quello che è emerso e quindi quello che non c’è. Vi inviterei a intervenire insomma, quindi adottando questa riflessione critica che parte appunto da quello che diceva Ugo rispetto ai punti deboli della formazione, praticata sia nell’università e sia dentro la scuola di specializzazione e sia nelle relazioni con colleghi, negli spazi di tirocinio o appunto con i docenti. Possiamo provare a esplorare questa dimensione più critica e meno presente, o esplicitamente meno presente nelle interviste che abbiamo raccolto, quindi su questo rilancerei.

ARDILIO: Io colgo il rilancio, non si vede che faccio una certa fatica a stare nel mio ruolo di co-conduttore oggi. Sono troppo dentro e quindi se sento il bisogno di intervenire è perché sono molto d’accordo con il professor Corino. Mi manca una critica, cioè almeno…Si, faccio fatica a stare con l’assenza di una dimensione attiva, forse militante, politica della psicoterapia. Però mi viene da fare anche una critica rispetto a questo: se c’è un modo di essere psicoterapeuta, come dire, se c’è un modo di fare lo psicoterapeuta e di essere attivo da un punto di vista, di farlo in modo militante, di uscire dallo studio… ecco, le generazioni precedenti ce l’hanno insegnato fino a un certo punto.

Penso per esempio – non so se lo conoscete – a Paul Preciado, uno psicanalista transessuale. Nel 2019 va a fare un discorso alle Journées de l’École de la Cause Freudienne a Parigi e fa un discorso sul superamento della differenza sessuale e viene fischiato, una persona gli urla “è Hitler!”, non lo fanno parlare. E siamo nel 2019. Quindi è una dimensione nuova, effettivamente è oggi veramente difficile da approcciare, quella del riuscire a fare questo mestiere. C’è il rischio di diventare troppo direttivi, di diventare ideologici. Il rischio di farlo con i pazienti è molto sottile. Riuscire a rintracciare il come abilitare la professione in un modo che non sia passivo rispetto a una contemporaneità sempre più individualista.

 CARDINALE: Provo un attimo ad agganciarmi a Roberto rispetto alla figura dello psicologo e dello psicoterapeuta. Anche io mi chiedevo come si fa ad uscire dallo stereotipo. Perché sempre più – e questo secondo me si lega anche un po’ alle difficoltà rispetto alla domanda che pone il paziente – io mi trovo in immagini o rappresentazioni dello psicologo attraverso i media, il cinema e anche i comici che prendono in giro quello che noi facciamo. È come se ci fosse un’idea di quello che è il nostro lavoro, di quella che è la nostra figura che io trovo per certi aspetti lontana, però per altri mi chiedo: ma se la gente ha questa immagine di noi, del nostro lavoro, cos’è che noi facciamo vedere e mostriamo?

Perché è come se spesso lo psicologo fosse associato un po’ al tuttologo, al saccente, a quello che ti dice la verità. Ma questo ci porta molto a fraintendere il nostro ruolo, a fraintendere quello che noi proviamo a fare con i pazienti. Vi faccio un esempio: l’altro giorno c’era una ragazza, la mia istruttrice di pilates, che mi chiedeva di che cosa mi occupassi nello specifico e se mi occupassi di bambini, perché era successo un evento molto comune tra bambini – il cominciare a parlare, a mettere in atto delle fantasie di accoppiamento. E lei questa cosa la riteneva ingestibile, come se avesse bisogno dell’accompagnamento di uno psicologo per capire se quello che facevano i bambini – che non era niente mentre giocavano, tipo il gioco del dottore, che è una cosa molto normale nell’evoluzione umana – però aveva bisogno di sentire il parere di uno specialista.

Ho provato a ridimensionare l’avvenuto, a farle capire quanto forse non ci fosse bisogno di rivolgersi a uno psicologo. E mi chiedo: mi rendo conto che molte persone che accedono in studio e poi non proseguono, è come se la domanda fosse rispetto a questioni che prima erano concepibili nello sviluppo della persona, cioè affrontare delle difficoltà. Oggi è come se le difficoltà legate a dei passaggi evolutivi fossero qualcosa di inaccettabile, come se non ci fossero le strutture mentali per poterle proprio pensare e ritenerle parte di qualcosa di naturale, che fa parte della vita.

E quindi qua entriamo in scena un po’ pure noi: come ci poniamo? Nel senso che poi c’è questa immagine dello psicologo che deve risolvere tutti i problemi e che ha la verità in tasca. Io non so, questa cosa è da un po’ di tempo che da un lato mi infastidisce, dall’altro mi rendo conto che ci pone in una dimensione fuorviante e che poi ci fa apparire in un modo, non so, è come se avessimo la bacchetta magica che deve cambiare tutto senza però che ci si possa mettere in gioco.

PROFITA: Ma se mi consentite di dire qualche cosa, mentre parlavate, a partire dall’intervento di Ugo, mi sono fatto una specie di giro mentale sulle altre professioni. Dal farmacista all’avvocato, dal medico – se così si può dire – dal medico specialista e anche dal medico generico ai mestieri un po’ più, diciamo così, meno paludati, dall’idraulico al muratore. È chiaro che tutte queste persone, o meglio, tutti questi mestieri, le persone che li fanno – e ne potremmo citare altri ancora, era solo un esempio – non hanno nessuna predisposizione, ma neanche nessun obbligo o deontologia personale che tenga in conto la persona che ci sta di fronte. O tenga parzialmente in conto la persona che ci sta di fronte. Insomma, l’avvocato potrebbe tenere in conto chi è il suo assistito, ma tantissime altre professioni questo non lo fanno. Se chiamate un elettricista non è che vi chiede “signora come sta? Come non sta?”. Non esiste.

E circa la specificità del nostro mestiere e anche della nostra formazione e della formazione universitaria, la domanda che io mi sono posto è se non c’è un po’ di confusione in tutte queste cose. Cioè che confondiamo da un lato la capacità professionale, la capacità di avere degli strumenti per aiutare, insomma tutto quello che attiene alla professione. Poi c’è un coté personale molto forte in tutto questo e che quindi rende questa professione particolarmente complessa, particolarmente difficile, particolarmente anche difficile da individuare. Nel senso che dice: ma il prete che fa? Qual è la differenza tra come si faceva una volta – andare dal prete per lamentarsi di problemi familiari, dei problemi personali, dei problemi sessuali – e quello che si fa oggi come psicologi? Dove sta la linea di demarcazione? E quello che voglio dire è che non solo questo avveniva con i preti, ma avveniva anche con altre figure. E dove sta la demarcazione tra professione, tra professionale e personale? Questa è la prima grande questione che credo non sia risolvibile.

Una risoluzione è stata quella del setting, diciamo così. Il setting era il nostro mestiere, è il nostro mestiere, quello che dava i confini e dava i confini ai pazienti e i confini anche a noi, utilizzando un dispositivo particolarmente rigoroso. Questo ci dava la possibilità anche di avere dei contorni più precisi. Invece ora questo setting sembra che lo stiamo mettendo sotto i piedi. Non si capisce bene come lavoriamo – lavoriamo dentro o fuori, con lo schermo, ogni 15 giorni, ogni settimana, di presenza, via Internet. Insomma, c’è una varietà di setting che in realtà sembrano tutti uguali ma non lo sono, e dove non abbiamo neanche noi fatto un approfondimento di tutto questo.

Il setting poi alla fine è diventato un po’ troppo elastico da un certo punto di vista. È come se tutto potesse essere fatto dentro – bastava che questo setting uno lo allargasse di qua, lo stringesse di là, insomma facesse operazioni di varia natura, più o meno pensate, più o meno legittimate. Ma ci sta dentro tutto, e anche questo è un altro problema. Ci sta dentro tutto perché sembra che ognuno di noi, che poi ha una formazione di un certo tipo, si occupi di morte, si occupi di nascite, si occupi di bambini e si occupi di vecchi. Insomma, è un po’ inventato tutto questo, è un po’ poco controllato.

Una cosa che mi colpisce molto è questa questione del tempo. Volevo anche chiedere a Giovanni quante volte è risultata questa parola “tempo” nei nostri dibattiti, nelle nostre discussioni. Il discorso della domenica, il discorso della messa – che si andava a messa e non si faceva… vorrei mettere un po’ così, alla rinfusa, ma sono tutte questioni fondamentali. Anche questo dell’utilizzo del tempo – il nostro tempo – quanto è questa una tendenza contemporanea? Tutti si sentono in diritto, in dovere di fare le cose con il proprio tempo e non con il tempo del dispositivo.

Voi tutti sapete che anche quando io insegnavo e ricevevo le tesi di laurea, le ricevevo alle 11:30 di sera perché c’era Internet, sul computer. Quindi questo tempo è completamente sballato, non ha più nessuna consistenza. Quindi c’è da un lato un mestiere che non ha forse confini molto precisi e molto definiti – e forse questo è uno sforzo che dovremmo ricominciare a fare fin dall’università, ma anche noi professionisti, noi che lavoriamo in un modo o nell’altro in questa dimensione.

E poi c’è la questione del tempo, che è la questione in qualche modo del rito. Il rito ha una funzione. E il disordine del tempo – vorrei qui solo accennarlo brevemente – è proprio quello degli psicotici. E noi viviamo in una dimensione forse psicotica, in cui non c’è il mattino e sera, non c’è estate e inverno, non c’è festa e non c’è lavoro. Non si capisce bene che cosa stiamo a fare, dove lo stiamo a fare, con chi lo stiamo a fare.

Forse cominciare a riflettere su queste cose non è una cosa secondaria. A proposito di identità professionale, di trasmissione, può diventare anche un elemento di ordine. E noi, ai nostri figli, quando i bambini vogliono questo e quello, spesso diciamo “una cosa alla volta”, ma noi non lo facciamo una cosa alla volta. Quante cose facciamo tutte insieme, in tempi diversi, in modalità diverse? A proposito delle cose non visibili, siamo caduti in una specie di indeterminazione complessiva della nostra vita, del nostro lavoro, che forse occorre dire “beh, questo io lo faccio, questo io non lo faccio. Questo lo faccio in quest’ora e questo non lo faccio in quest’ora” e insomma essere un po’ più contenuti e non così schizzati in tutte le dimensioni.

SCHIRINZI: Se posso collegarmi a quello che si stava dicendo, io pensavo proprio questo: anche riprendendo alcune domande, dove lo mettiamo noi il gruppo? Cioè penso che farlo di domenica mattina anziché metterlo durante la settimana significa che anche noi privilegiamo attività in studio o comunque sia la nostra individualità a quello che è uno spazio di lavoro gruppale. Metterlo nei ritagli di tempo significa che siamo anche noi primi professionisti che diciamo “ci vediamo in gruppo quando abbiamo tempo, quando tutti hanno il momento libero”. Che poi libero che vuol dire? Quando non lavoriamo, quando non dobbiamo sacrificare il lavoro. Quando non dobbiamo sacrificare che cosa? E questo è un primo spunto, perché penso che a questo punto dovremmo anche essere i primi a dire “lo spazio di gruppo lo voglio e sacrifico qualcosa dell’individuale”. E dell’individuale però non è che tolgo agli altri gruppi perché, che ne so, la domenica forse ci sono altre cose, anche gruppalità a cui appartenere, al di là di quelle lavorative.

E poi mi colpiva anche la serie di domande che Ugo, il professor Corino, ci poneva. Pensavo che comunque ci dicesse anche molto di quello che, come dire, in una fase della professione ci si trova davanti. Quali sono i problemi, le criticità? Dopo un anno di studio privato, tra virgolette, non ho abbastanza esperienza per proporre una mia idea. Lo posso proporre in base a quello che ho studiato, a quello che ho letto. Ma cosa c’è di mio, di quello che ad oggi io sento sia l’esperienza della professione del terapeuta?

E quindi pensavo a quanto alcuni temi hanno bisogno anche di maturazione, oppure fasi della professione vanno proprio costruite, non ricostruite, facendole. Perché io posso dire ad oggi cosa penso debba fare un terapeuta, o quale immagine, oppure come dovrebbe essere organizzata l’università, eccetera. Ma mi sto ancora muovendo all’interno di quello che vuol dire essere terapeuta. Sicuramente non c’è un punto d’arrivo, ma penso che vada anche rispettato chi ha 10 anni, 15 anni, vent’anni all’interno di questo lavoro. E come si coniuga quello che io sento ora con quello che loro hanno fatto? E appunto, se lo spazio del gruppo è relegato in maniera carbonara è preoccupante, perché vuol dire che non è al centro della mia professione.

ALBA: Io pensavo, a proposito di criticità, agli assenti. Siete pochi rispetto a quanti sono stati invitati. Così come è stato difficile trovare adesioni per le interviste, trovare un giorno per farle. È stato molto difficile trovare partecipanti e secondo me questo fotografa una difficoltà proprio nella partecipazione. Anche l’appello al gruppo che veniva fatto nelle varie interviste… Io credo che ci sia una grande difficoltà. Non c’è l’intenzione di essere parte di gruppi in una maniera attiva. A me sembra che questo sia molto più diffuso che in passato. In passato l’idea del coinvolgimento era molto più naturale.

Oggi credo che questa sia sicuramente anche una responsabilità nostra come generazione che forma, che evidentemente non riusciamo a trasferire bene che diventare professionisti, diventare psicoterapeuti significa appartenere a una comunità professionale. Ma appartenere attivamente, non appartenere perché sono iscritto all’Ordine. Questo credo che sia in linea con i tempi rispetto all’individualismo. Prima tu dicevi dello studio privato – in una riunione della redazione, non ricordo chi dicesse che lo studio non è privato ma è pubblico perché forniamo un servizio al pubblico e perché ci dobbiamo pensare dentro una comunità. Mentre invece a me sembra – e questo le piattaforme chiaramente lo favoriscono tanto, l’abbiamo detto – si vada molto verso una dimensione individualistica della professione. E cioè voi ci siete, siete qui, però forse siete un campione particolare. Non so nel confronto con gli altri colleghi della vostra generazione, se lo vedete anche voi, che c’è una difficoltà, che non c’è un’intenzione di coinvolgersi.

PASQUINI: Ho letto quello che è stato inviato. Si è parlato della qualità del tempo. Io metterei anche l’accento sulla qualità della relazione, nel senso che se io sono qui è perché ho dei colleghi, perché ho fatto una scuola ed è questo che mi porta ad andare avanti e a partecipare agli incontri. Mi fa piacere incontrare dei colleghi, mi fa piacere incontrare delle persone, il mio supervisore. Si rientra all’interno di una rete. A me questo piace perché l’ho vissuto.

La parte più critica è che la difficoltà sull’individualismo parte molto prima. Mi capita di fare degli interventi all’università e dei laboratori di teatro e per quest’anno è stato molto difficile creare un gruppo. Perché ci sono tanti impegni, ci sono tante cose che si fanno. C’è una certa fretta proprio sociale, questo lo vedo anche negli adolescenti. A 16 anni fanno tante cose, fanno anche tanto sport – che prima era una cosa che bisognava fare sport, basta stare sui social, adesso i social sono meno attivi. Fanno tante cose, c’è un movimento continuo di attività proprio grandi che vengono fatte; quindi, i tempi sono molto presi da altro. Ecco, ritornando sulla parte della relazione, ieri ho parlato con una collega sul fatto che non è venuta all’incontro del laboratorio di gruppo analisi a Roma. È stato un modo anche per parlarci, per scambiare pensieri. E devo dire che questo aiuta tantissimo – il poter fare uno scambio di questo tipo, il parlarsi, il poter anche dire “OK, c’è una solitudine, ma questa solitudine può essere condivisa”. Fa molto, ecco questo.

BENE: Quello che volevo dire io rispetto a tutto quello che state dicendo è che la mia decisione di partecipare sia all’intervista che a questa mattinata ha proprio il senso di uscire da quella solitudine che io ho sentito moltissimo nell’inizio della mia professione. Ho iniziato fondamentalmente la mia professione poco prima del COVID e nella piattaforma online; quindi, questo ha ispirato tantissimo in me questo senso di solitudine, sia di lavorare soltanto con il paziente in individuale, ma anche proprio rispetto all’appartenenza ad una comunità professionale.

Che in qualche modo ti consente di fare questo lavoro in una maniera totalmente diversa, perché c’è la possibilità di condividere, di aprire, di generare cose nuove. Per me partecipare a questi momenti ha consentito proprio in realtà di uscire da quella dimensione privata in cui stavo cadendo, perché appunto lavoravo soltanto privatamente e online.

È quello che diceva Stefano, cioè se notiamo nelle nostre generazioni di colleghi questa in realtà non volontà ad appartenere a dei gruppi di colleghi, quindi di far parte proprio in vivo alla vita associativa della comunità professionale. Io questo lo vedo molto perché lavoro in uno studio dove ho colleghi che non sono membri del Laboratorio né della COIRAG, e che vivono la professione in una maniera molto diversa dal modo in cui la intendo io e dal modo in cui in realtà sento che la mia formazione – a proposito di ciò che si diceva prima della critica alla formazione – in realtà io sono grata alla formazione che ho avuto perché nella scuola COIRAG mi è stata molto trasmessa l’importanza di appartenere ad una comunità. Io questo lo sento tanto. E quindi ringrazio insomma voi che avete dato questa opportunità.

ASCONE: Al tempo, all’esserci e a quello che invece poi vedo rispetto ad altri colleghi della mia stessa generazione, è qualcosa su cui mi interrogo ultimamente particolarmente. Si collega anche al discorso che faceva il professor Corino sulla mancanza di pensiero critico. Credo che sia proprio un fattore quasi generazionale – nella mia idea siamo stati forse poco stimolati ad avere un pensiero critico rivolto all’esterno. Credo sia molto più incentrato sull’autocritica che sulla capacità di chiederci se qualcosa che ci circonda avrebbe potuto essere impostata in maniera diversa, o comunque domandarci se non siamo noi il problema. È molto incentrata su un aspetto quasi remissivo rispetto a quello che siamo, quello che possiamo essere. Non lo so se ha senso però mi veniva in mente questo.

AJOVALASIT: Io sono molto d’accordo con quello che dice Martina. Mi sono ricordata delle prime supervisioni, soprattutto a scuola, che per me in realtà erano sì molto stimolanti, ma anche dei momenti di grande durezza nei confronti di me stessa, nel senso che poi le domande che mi ponevo erano tutte sul registro del “cosa sbaglio? Cosa sono manchevole, a cosa avrei dovuto pensare?” invece che farmi delle domande sui contesti. Quelle sono venute poi dopo. A proposito di politica, è da un po’ di tempo che io mi impegno molto, con grande fatica, a curare uno spazio ed un tempo che siano politici. Nei nostri incontri, infatti, prima delle interviste, dopo le interviste, abbiamo parlato tantissimo di un terzo tipo di tempo che forse oggi ancora qui non era stato citato, che è proprio il tempo liberato che noi abbiamo un po’ identificato come un tempo politico che non è né dedicato alla professione né dedicato al privato, e non è un tempo libero, ma è un tempo che si sceglie di liberare. È un po’ secondo me quello che abbiamo fatto questa mattina, appunto decidendo di stare insieme.

Ieri pomeriggio ad un certo punto mi sono preoccupata, barra angosciata, arrabbiata perché ho cominciato a pensare all’incontro di oggi e mi chiedevo “ma ci saranno veramente tutti o comunque gran parte degli intervistati?”. E avevo la preoccupazione che ci saremmo ritrovati soltanto noi che avevamo finora condiviso alcuni pensieri. La stessa riflessione la facevo rispetto alla Cittadinanza Riflessiva, che è un’attività di grande gruppo che io e Roberto abbiamo portato a Palermo. Il 22 febbraio faremo il nostro terzo incontro e io sono preoccupata per la scarsa partecipazione rispetto alle prime due, dove si sono iscritte 50-60 persone mentre adesso abbiamo pochi iscritti, che ovviamente non significa ancora nulla.

Però è come se mi stessi proprio ponendo molto le questioni che riguardano un po’ quello che diceva Federica, la tensione tra il desiderio costante di fare qualcosa, di esserci e poi le necessità, anche quelle private. E stamattina leggevo una frase – e dico quest’ultima cosa e mi fermo – che diceva “Stai dove tutto è reciproco”. A primo impatto mi è piaciuta molto, poi mi sono detta “ma anche no”. Nel senso che forse soprattutto noi, con il lavoro che facciamo in tutti i vari ambiti, non possiamo stare solo dove c’è reciprocità. Ma forse la sfida, almeno quella che sento io personalmente, è proprio la possibilità di stare anche laddove non c’è reciprocità, laddove c’è solo un dare o solo un ricevere. Questa personalmente è la mia tensione del momento.

FUOCO: Quello che ha detto Giulia mi ha fatto pensare a una seduta di gruppo, l’ultima. C’è un gruppo che ho cominciato come osservatrice poi ho continuato come co-conduttrice. I pazienti lamentavano la poca responsività dei loro contesti e la grande fatica nel non ricevere un riconoscimento da parte di familiari oppure amici all’interno dei contesti di lavoro. E poi è emerso il tema dell’essere noi portatori di una cultura diversa rispetto a quella dei contesti che viviamo. Quello che ha detto Giulia a proposito della reciprocità e del riconoscimento mi hanno fatto pensare a questa seduta di gruppo. E mi chiedevo appunto, come fare a portare poi fuori dai nostri dispositivi, dai nostri spazi comuni, gli incontri che facciamo di gruppo all’interno della comunità nostra e non? Come fare a portare questo tipo di cultura fuori?

MARRONE: Io direi che il lavoro che stiamo facendo può essere anche uno strumento in questo senso, perché la rivista Plexus è stata finora orientata a un dialogo, una condivisione sul piano prettamente interno dell’associazione laboratorio. Probabilmente le prospettive saranno quelle di allargare l’area di movimento. E questo porta con sé un aspetto che secondo me è centrale, importante: quello che ci siamo sempre detti sulla complessità del mondo in cui ci muoviamo. L’avvento delle tecnologie, il modo in cui portiamo avanti anche questa ricerca, in questo momento in dialogo serrato con l’intelligenza artificiale, è qualcosa di nuovo che ci apre a prospettive sicuramente nuove. E io non vi nascondo che ho una forte preoccupazione rispetto al fatto che oggi noi abbiamo toccato dei piani emotivi. Mi ha colpito molto l’intervento precedente di Federica che parlava di spaesamento, di smarrimento – aspetti e livelli che io conosco e che ricordo bene, anche quando erano più strettamente legati all’immediato inizio della professione, subito dopo la fine della specializzazione.

Sono molto preoccupato perché temo che l’intelligenza artificiale pialli un po’ questo livello che in qualche modo adesso io sento, percepisco e che poi quindi in qualche modo può essere cancellato. Dice Corino “in modo democristiano troviamo un equilibrio, andiamo un po’ avanti”. Io penso che sia faticoso quello che noi ci diciamo di fare. Da una parte rinunciare a delle quote necessarie di sicurezza legate al vecchio modo di fare psicoterapia e psicoanalisi – questo setting con un luogo più o meno controllabile. Poi ricordo che già nel tema sviluppato dal Laboratorio di gruppo analisi del campo aperto si ponevano in qualche modo delle questioni nuove rispetto a una contenibilità delle dinamiche e delle cose che si attivano dentro un setting. Dicevo che in qualche modo abbiamo la necessità di rinunciare a questo livello, a quello che è stato un livello portato avanti per molto tempo di controllo e di contenitori stabili e pensati, e portarli dentro una dimensione totalmente nuova. È una preoccupazione simile a quella del “vabbè adesso ci stiamo incontrando, stiamo dicendo cose così interessanti su un piano emotivo, io mi sento dentro questa riunione”, ma poi percepisco il rischio che se la vede l’intelligenza artificiale, poi ti aggiustiamo, facciamo un bello schema, tutto preciso, tutto chiarissimo, tutto mentalizzato, ma poi insomma… E questa penso che sia una bella sfida per noi.

Intanto, rispetto a quello che ci siamo detti e soprattutto la critica che io farei all’intelligenza artificiale, può essere che me lo sono perso, però la rabbia non era riportata nel resoconto che abbiamo costruito con l’intelligenza artificiale, ma io me la ricordo la rabbia nel focus group che abbiamo fatto con Giovanni. C’erano degli interventi durante il nostro focus group che sottolineavano degli sbagli che avevamo fatto – non abbiamo ben capito come – rispetto alla presenza e alla partecipazione al gruppo, e questo livello è stato cancellato. Io non l’ho ritrovato e penso che invece la rabbia, o se la vogliamo un po’ durare, l’indignazione, il non essere pienamente d’accordo, sia un aspetto fortemente vitale che dobbiamo portare avanti. Sapendo che non è facile, è faticoso, perché quando tutto è incasellato, preciso, standardizzato, dire “OK, ma secondo me questo non è proprio così, questo fatto qua non è così” – non è scontato, ci dobbiamo mettere il nostro, ci dobbiamo mettere il coraggio. È un po’, secondo me, il coraggio che entra in contatto con questo livello di rabbia, di scontentezza, di indignazione. Il coraggio lo possiamo trovare nella nostra soggettività, nel senso di come ci sentiamo.

Ecco, io mi sento in questo momento coinvolto in questa riunione, un po’ stanco, perché pure io, seppure online, c’ero pure alla riunione di ieri della sede di Roma. E domani si ricomincia a lavorare. Ho anche qualche lineetta di febbre, quindi insomma un po’ lo sento. Tutto questo però penso che sia molto vitale per me – la partecipazione a questi spazi, a questo spazio nello specifico – perché da una parte porto del mio, da una parte mi metto a disposizione di un lavoro gruppale, però insomma ricevo tanto e questo è il motivo per cui, facendo un equilibrio, mettendomi nel mio essere soggetto, partecipo e sono contento di esserci. E sono anche disponibile rispetto alle ulteriori prospettive che sta facendo la rivista in generale, ma soprattutto rispetto alle ulteriori elaborazioni dei lavori che stiamo facendo.

RUVOLO: Vorrei ricordare a tutti che mi sembra doveroso dare anche qualche minuto la parola a Valentina Lo Mauro che abbiamo coinvolto nella qualità di osservatrice del nostro dialogo di oggi, perché ci possa dare una minima restituzione, come lei vuole, come lei può, su quello che ha osservato non avendo appunto partecipato a nessuna delle riunioni precedenti. Per quanto mi riguarda io sono estremamente pieno delle domande, anche nuove, che sono emerse stamattina e mi sono appuntato tutta una serie di punti che mi piacerebbe sviluppare prossimamente. Per la verità avevo pensato di cominciare a parlarne, ma mi astengo perché altrimenti non la finiamo più e quindi approfitto per ringraziare tutti voi e chiedo appunto che a Valentina poi siano dati due minuti per il suo feedback.

LO MAURO: Ma io cercherò di prendere veramente pochissimo tempo perché mi rendo conto che sono già le 11:51 e soprattutto perché ho una posizione, più che da osservatore, di ospite in questa riunione. Anzi, nel corso del nostro incontro e di questo tempo prezioso di ascolto, proprio la parola “ospite” è quella che forse mi mette un po’ più a mio agio. Per un’attitudine propria dell’essere ospite che è quella di entrare in casa d’altri e di incontrare il tempo degli altri, il lavoro degli altri, con grande rispetto e cura – a proposito di una delle parole che ha orientato questo ragionare. Certo, sono ospite per affetto e per storia. Qualche giorno fa ho sentito uno dei colleghi che sta partecipando alla ricerca, Fabio, che è stato anche specializzato a scuola. Mi chiese “Dottoressa, ma lei ci sarà?” E io “Guarda, non lo so, sicuramente mi piacerà sentire tutto, partecipare alla restituzione di questa ricerca, ma ne parlo col professore Ruvolo”. E il professore mi ha detto, Giuseppe mi ha detto “Guarda Vale, non è un momento di restituzione, è un momento di conclusione, di rilancio del nostro lavoro”. Al che la mia domanda è stata “Ma forse sono inopportuna?”. E però ragionando con lui ha detto “Ma forse invece ci aiuteresti”.

E allora io me lo sono chiesto: in che modo potevo essere di aiuto? E forse è proprio la parola “ospite” che mi aiuta in questo senso. Mi aiuta perché intanto faccio i conti con il tempo di questa mia presenza che è un tempo molto limitato, che non può che offrire uno spazio di restituzione minima e che può forse esercitare questa abilità, questa competenza umana della discrezione, quella del riconoscimento. L’ospite proprio perché abita uno spazio per un tempo che è transitorio, ha questa capacità o può esercitare questa capacità di riconoscere, di muoversi tra dentro e fuori. Dentro e fuori credo che sia un po’ uno dei temi di questa ricerca, è forse quello che ci interroga tutti.

Mi ha colpito che Roberto diceva “Io sono fin troppo dentro per accorgermi di alcune cose”. Non perdere l’attitudine a mettersi un po’ fuori credo che ci aiuti tutti a guardare un po’ di più cosa sta succedendo. Soprattutto perché noi, come i nostri pazienti, come tutti noi che oggi siamo qui, non siamo fuori da tutta una dimensione sociale e culturale che veicola in maniera molto forte dei significati e degli organizzatori del tempo, delle nostre relazioni, delle domande che ci facciamo. Io sono sempre molto colpita dal fatto che con molta frequenza, che sia Siri o altro, finiamo ciclicamente con l’usare tutti le stesse parole. Questa è una cosa che mi colpisce perché finiamo con il non interrogare più le parole che utilizziamo, come se diventassero degli automatismi che però creano dei significati molto forti. Esercitare una continua pratica di entrare dentro, ma avere anche quella leggerezza che ci consente di guardare le cose ponendoci un po’ fuori credo che possa essere una buona pratica di ricerca e di esplorazione. E dico questo anche per riprendere tante delle cose che sono state dette: come si fa ad uscire da uno stereotipo, come si fa a mettere in discussione un significato o un tempo o una domanda che sembrano già precostituite, preconfezionate? Parlo al plurale perché credo che sia un esercizio al quale tutti noi dovremmo continuare a praticare.

L’altra cosa che mi veniva in mente è quanto sia importante aver cura di tutti i momenti di disorientamento, di spiazzamento, perché sono secondo me un grande indicatore rispetto al tempo che poi ciascuno si accorda per uscire da contenitori, da compiti, da funzioni che ci costruiscono in quanto persone, in quanto professionisti. Quindi sono molto vicina a quanto diceva Gabriele Profita sul fatto che dovremmo ricominciare a interrogare un po’ di più i dispositivi che mettiamo in campo, perché i dispositivi istituiscono dei contenitori, istituiscono un tempo e quindi ci consentono anche di rimettere in discussione lo spazio dell’impegno della relazione che contrattiamo con gli altri. A proposito di un tempo che viene, e di tutta una serie di cose che avete detto e che non ripeto, che vengono tutte riportate come questioni da affrontare individualmente – e invece sono, credo… lo diceva anche Giulia, alla fine io ho riportato sempre tutto a me, come se fosse mia unica responsabilità quella di dover pensare dove ero stata mancante, dove avevo sbagliato eccetera. Invece se ricominciamo a pensare ai contenitori, agli spazi che ci consentono poi un tipo di ragionamento o un altro, forse rimettiamo un po’ in discussione proprio lo spazio più pubblico, che invece diventa responsabilità condivisa.

DI STEFANO: Grazie Valentina, prima che ci salutiamo però volevo dare un ultimo brevissimo rilancio. C’era qualche cos’altro che chi ha partecipato oggi avesse voglia di dire o chi non ha avuto desiderio o spazio per intervenire, lo può fare adesso.

SCANNAPIECO: Io brevemente, visto che sono stata in silenzio tutto il tempo, stavo riflettendo proprio su questo. Cioè su quanto io mi sia rispecchiata in tantissime cose che sono state dette oggi e condivido tante cose che sono state dette oggi, ma sento proprio la necessità di prendermi del tempo per elaborare tutte queste informazioni perché non sono in grado di fare una riflessione che abbia, come dire, una coerenza, ma sento che ho tutti i pezzi frammentati; quindi, ho bisogno di tempo per metterli insieme. Sento che è prezioso il potersi dare del tempo per capire delle cose o dare un senso poi a delle cose. Quindi solo questo e grazie.

DI STEFANO: Grazie Rosa per avere avuto l’occasione di dirci dell’esigenza di mettere insieme i pezzi, ma del resto appunto è un qualcosa di aperto. Noi mettiamo alcuni punti, il prossimo sarà tentare di chiudere questo numero che ha avuto un lavoro lungo, ma il fatto che lo metteremo nero su bianco non lo conclude. Infatti, abbiamo in mente tante altre cose sulle quali proseguire. Io rinnoverei i miei ringraziamenti e fermerei qui il nostro incontro, ma darei a Giuseppe proprio la parola per chiudere.

 MONISTERO: Io vi devo salutare perché il mio setting a breve sarà invaso, diciamo che ho terminato il mio tempo di possibilità di usare questa stanza. Però vi volevo dare un abbraccio a tutti e mi sentirò con i colleghi Roberto e Giulia per le ultime informazioni.

DI STEFANO: Grazie Letizia, buone cose e a presto. Scrive Giampiero in chat che “il tema presente ma non espresso, è quello degli affetti che sembra abbia permeato l’incontro di oggi. L’incontro di oggi forse non viene abbastanza trattato nella formazione ed è quello che caratterizza la presa in carico e anche tutte le attività post formative”. Eh beh, mentre siamo qui è anche per affetto, l’ha detto anche Valentina.

RUVOLO: Bene, sì, con molto affetto vi ringrazio perché è stata una bella mattinata. Mi spiace che tanti non siano voluti o potuti essere presenti, ma diciamo che sono quella parte di noi che nella dinamica del tempo pubblico e privato sono rimasti impigliati nella rete, mi viene di esprimerlo così. E grazie molte, in ogni caso. Cercheremo di coinvolgervi sia voi sia altri ancora nel tentativo di fare una rete sempre più larga, una gruppalità sempre più larga. Sia però una gruppalità di pensiero, questo è l’augurio che rivolgo a tutti noi, a presto.

 

[1] Prima di avviare la riunione Gabriele Profita aveva mostrato la copertina del libro di F. Jullien “Le trasformazioni silenziose”.

Il gruppo multifamiliare del Budget di Salute dell’ASST Santi Paolo e Carlo come elemento ponte tra il tempo istituzionale della comunità e il tempo del vivere
Angela Palmieri, Marco Pansera, Serena Ferrario, Benedetta Riva, Giuseppina Pisciotto, Claudio Di lello, Alessandro Grecchi, Gemma Maresca

Nella sperimentazione del Budget di Salute dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano, si è realizzato l’intento basagliano di chiusura di una Comunità Psichiatrica a Media intensità in favore della riterritorializzazione degli utenti con disagio psichico. In questa cornice si muove il Gruppo Multifamiliare, ideato ad hoc come traghettatore di un cambiamento di tempi e luoghi di vita che va a rielaborare la storia degli utenti verso la costruzione di un futuro di autonomia. La complessità dei legami emotivi ed affettivi che emergono va a creare una rete familiare diffusa tra coinquilini e amici, tra l’utente e i familiari di un altro utente, tra utenti ed operatori, tra equipe e familiari, presentificando una matrice originaria e scardinando i nuclei chiusi. Attraverso la connessione tra famiglie diverse si esplicitano dei codici familiari che sono rimasti silenti per tanto tempo e che il gruppo attraverso un rispecchiamento riesce a far riaffiorare con lo scopo di sostenere il cambiamento. Il Gruppo Multifamiliare si rende memoria storica dei processi di responsabilizzazione che attraversano l’elaborazione di paure, rabbie e angosce per giungere alla costruzione di un nuovo ruolo attivo del cittadino nel suo percorso di cura. Diventa quindi luogo in cui rileggere la propria storia di vita che passa da un tempo istituzionale caratterizzato da ritualizzazione e parziale delega della cura ad un tempo dell’abitare autonomo connotato da imprevisti che creano dinamismo e personalizzazione del proprio vivere intessuto nel territorio. In conclusione, questo lavoro vuole porre il focus sulla valenza supportiva che il gruppo fornisce nei processi trasformativi di vita delle famiglie.

Gruppi multifamiliari psicodinamici, Budget di Salute, patologie psichiatriche, legame genitoriale, elaborazione di cambiamenti…

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The multifamily group in the Health Budget Model of ASST Santi Paolo e Carlo as a bridging element between the institutional time of the community and the time of independent living

In the experimentation of the Health Budget of ASST Santi Paolo e Carlo in Milan, the Basaglia – inspired intention to close a Medium-Intensity Psychiatric Community in favor of the reterritorialization of users with mental distress was realized. Within this framework, the Multifamily Group, designed ad hoc as a ferryman of a change of lifetimes and places that goes to rework the history of the users toward the construction of a future of autonomy. The complexity of the emotional and affective ties that emerge goes to create a diffuse family network between roommates and friends, between the user and another user’s family members, between users and operators, and between team and family members, by personifying an original matrix and unhinging closed households. Through the connection between different families, are made explicit family codes that have been silent for so long and that the group through mirroring succeeds in resurfacing with the purpose of sustaining change. The Multifamily Group becomes a historical memory of the processes of empowerment that go through the elaboration of fears, anger and anguish to arrive at the construction of a new active role of the citizen in his or her care journey. It then becomes a place in which to reread one’s own life story that passes from an institutional time characterized by ritualization and partial delegation of care to a time of independent living marked by unexpected events that create dynamism and personalization of one’s living woven into the territory. In conclusion, this paper aims to focus on the supportive value that the group provides in the transformative processes of families’ lives. Training in psychotherapy is a complex subject, that cannot be approached only by adhering to the MIUR regulations. A reflection on this subject has been underway for some time within the Laboratorio di Gruppoanalisi, leading to the initiative “L’Andare a Bottega”. This article starts from the experience of five online supervision groups on a fortnightly basis carried out during 2022, which is currently continuing. From the writings of the participants and the conductors who were telling about the experience, we try to bring out some antinomies related to the path that each psychotherapist needs to take because of the both social and clinic role of profession, in order to fully live such role. The interweaving with the article “La trasmissione tra le generazioni”, that has been for the participants a stimulus to tell their own experience, allows a broad vision in which the individual contributions are placed as pieces of a mosaic that tells the experience. At the same time, it shows how not to resolve issues with uncritical adherence to one position rather than the other. This process, in place through the group, represents a possible key to a freer and more conscious human and professional experience.

Psychodynamic Multifamily Groups, Personal Health Budget, severe mental illness, parental bonding, processing changes

 

1. Introduzione

Ogni individuo è parte di una famiglia che genera relazioni. Moltissimi studi (per citarne alcuni: Brown, Waite, & Freeman, 2021; Mathews et al., 2016; Steele, Townsend, & Grenyer, 2019; Valiente, Romero, Hervas, & Espinosa, 2014; Waikamp, Serralta, Ramos-Lima, Zatti, & Freitas, 2021) hanno dimostrato quanto influisca sullo sviluppo di un bambino la relazione con le figure significative. A tale proposito apre una grande riflessione la teoria dell’attaccamento di John Bowlby che aveva evidenziato l’importanza della relazione madre-bambino nello sviluppo fisico, intellettuale e comportamentale del bambino. Per Bowlby i legami emotivamente sicuri hanno un valore fondamentale per la sopravvivenza e l’attaccamento riveste un ruolo centrale nelle relazioni tra gli esseri umani (Bowlby, 1989). Le esperienze che si intersecano fin dalla nascita creano un tessuto emotivo, relazionale, sociale, cognitivo che rendono nel bene e nel male indissolubili i legami familiari. Queste relazioni che si costruiscono con amore, fatica e aspettative con il tempo e la ricerca di un’autonomia personale necessitano che si realizzi il processo di individuazione-differenziazione dalla famiglia. Come ha affermato Murray Bowen, l’obiettivo del singolo è quello di svincolarsi dal proprio nucleo familiare attraverso un processo di autodefinizione e individualizzazione che viene da lui definito “differenziazione”, che non è un semplice atto di allontanamento, quanto un percorso che dura tutto l’arco della propria esistenza e che richiede impegno e lavoro costante: “La differenziazione è il livello più alto di funzionamento umano” (Bowen, Andolfi, & De Nichilo, 1979). È necessario creare un progetto esistenziale autonomo che provochi la rottura, di solito naturale, dove questa differenziazione non si realizza (Searles, 2000). La Comunità terapeutica, quindi, viene proposta come luogo “altro”, dove cercare di realizzare la differenziazione dalla famiglia di origine. Le Comunità però svolgono il loro ruolo riabilitativo con una tempistica che deve autoesaurirsi per avere un senso terapeutico e riconsegnare l’individuo alla collettività con un progetto di vita e con delle competenze rinnovate.

                        

2. Il budget di Salute e la spinta deistituzionalizzante

Il Budget di Salute – BdS si costruisce come “un modello innovativo che favorisce l’integrazione tra sistema di cura e sistema di comunità̀” (Pellegrini, 2015) e rappresenta “l’unità di misura delle risorse economiche, professionali e umane necessarie per innescare un processo di capacitazione volto a ridare ad una persona un funzionamento sociale accettabile attraverso un progetto terapeutico riabilitativo individualizzato, alla cui produzione partecipano il paziente stesso, la sua famiglia e la sua comunità̀” (Righetti, 2013). Il progetto di sperimentazione del BdS presso l’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano su indicazione di Regione Lombardia (Delibera di Giunta 380986 del 12.22) ha previsto la chiusura di una struttura residenziale e l’arruolamento di utenti a rischio di istituzionalizzazione. La costruzione di questo progetto è stata lunga e tutti i servizi della rete dipartimentale dell’ASST hanno cooperato: gli invii degli utenti alla CPM sono stati ragionati sulla base della potenziale candidabilità̀ al futuro percorso di autonomia e parallelamente il lavoro riabilitativo dell’equipe della CPM si è ancora più̀ orientato verso la promozione di un percorso di cura recovery-oriented che mettesse al centro la partecipazione attiva e la responsabilizzazione degli utenti. Con l’obiettivo deistituzionalizzante di chiara ispirazione Basagliana, si è giunti pertanto a dimettere 14 utenti contemporaneamente dalla Comunità̀ Protetta a Media assistenza Casa Nuova. La comunicazione agli utenti della riterritorializzazione del gruppo ha comunque generato forti emozioni ambivalenti, che in modo diffuso hanno permeato la mente sia dei pazienti che degli operatori. Pazienti e operatori sono stati per mesi gli attori che si sono impegnati a mettere in scena, attraverso fasi esperienziali, la vita fuori dalla comunità, fino ad allora percepita come un luogo sicuro, con il tempo scandito da ritualità che incoraggiavano, dissipavano paure e sollecitavano i cambiamenti, ma rendevano anche dipendenti. All’interno di questo scenario ci si è confrontati su come sostenere il passaggio da un “tempo istituzionale” – la Comunità – ad un “tempo del fuori”, in cui ricominciare a costruire delle relazioni, diverse da un ambiente, quello istituzionale, al quale anche le famiglie avevano delegato il mandato di cura. Lo strumento che si è ritenuto efficace per traghettare gli utenti psichiatrici che avevano terminato il percorso comunitario, spesso della durata di molti anni e vissuto come una fase di costruzioni relazionali alternative alla famiglia, è stato il Gruppo Multifamiliare (GMF). Esso si costituisce quindi come una possibilità di incontro tra persone legate da vincoli familiari e di alleanza (più famiglie insieme ed operatori), al fine di creare una rete sociale di supporto al cambiamento. Il gruppo è stato ideato inoltre come possibilità di cura per cercare di prevenire eventuali ricadute dopo il percorso residenziale. Il GMF è stato il luogo nel quale i familiari potessero essere aiutati ad attraversare con i propri congiunti e operatori il “tempo” dedicato al viaggio, inizialmente verso una nuova vita e poi verso il cambiamento. Questo viaggio ha attraversato diverse tappe e si è confrontato con i rispettivi processi che andremo a narrare: inizialmente è stato partorito dalla mente dell’equipe che ha strutturato un protocollo metodologico e un setting; poi alla comunicazione agli utenti è stato il palco per esprimere l’emotività; in seguito si è visto la sede del tempo del lutto di ciò che è stato il periodo comunitario per raggiungere l’accettazione di un cambiamento; ha poi permesso il raccontarsi di un periodo di adattamento per approdare in un tempo in cui le competenze sono assodate ed è possibile aprire l’autocritica; infine ha raggiunto un tempo della speranza.

 

3. Il tempo del pensiero d’equipe, della costruzione del setting e della metodologia

Il Gruppo Multifamiliare ideato nella CPM dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano si è ispirato al lavoro di J.G. Badaracco e in Italia di A. Narracci (García Badaracco & Narracci, 2011). Si è costituito e riunito per la prima volta nel mese di ottobre 2022 presso la Comunità̀ Casa Nuova identificata per la sperimentazione del BdS, tre mesi prima delle dimissioni dei pazienti. Ciò̀ evidenzia la similitudine con il progetto originario di Badaracco che aveva iniziato i gruppi di Psicoanalisi Multifamiliare proprio in previsione delle dimissioni di pazienti dall’ospedale psichiatrico al fine di coinvolgere le famiglie per un loro eventuale ritorno a casa.

Il gruppo multifamiliare, ideato ex ante la realizzazione delle dimissioni, è stato concepito sullo scambio dialogico, come scrive A. Narracci, ed è impostato su alcune regole :1) Si parla uno per volta e, mentre uno parla, tutti gli altri ascoltano; J. G. Badaracco ricordava di tenere presente per ognuno dei partecipanti un clima di profondo rispetto. 2) Tutti i partecipanti sono tenuti ad essere disponibili ad ascoltare i pareri altrui anche se molto divergenti dai propri. 3) Viene data la parola a chi la chiede così che sia rapida la circolazione delle idee e ci sia il susseguirsi delle associazioni libere.

Il gruppo è aperto a utenti e familiari che possono unirsi gradualmente, senza che sia stabilito un numero massimo o minimo di sedute o di famiglie, e nella co-costruzione dell’incontro ciascuno è presente con il suo contributo autentico ed unico. La cadenza è mensile e la settimana successiva a quella dell’incontro, avviene una supervisione regolare tenuta da uno Psichiatra e Psicoterapeuta. La conduzione è affidata ad una Psicologa Psicoterapeuta e vi partecipano due TeRP e una tirocinante TeRP. Se l’impronta del gruppo è psicodinamica, la presenza di operatori di diverso orientamento e formazione consente l’integrazione di saperi e approcci dissimili facilitando lo scambio e una visione più̀ ampia e plurale della realtà̀. La dimensione evolutiva e supportiva del gruppo si manifesta nei fattori terapeutici che di volta in volta emergono e che spaziano dal livello individuale (acquisizione di strategie, alleggerimento del senso di colpa e della tensione e aumento della fiducia in sé stessi), alla famiglia (relazioni più̀ autentiche e migliore comunicazione), e al gruppo stesso (coesione e condivisione di esperienze, aumento della connessione sociale). Il gruppo è stato offerto a tutti gli ospiti della comunità̀ e ai rispettivi familiari, con l’obiettivo che fosse di supporto in questa fase di grande cambiamento. Il primo incontro del gruppo si è tenuto nell’ottobre 2022 e da allora le sedute si sono susseguite regolarmente ogni ultimo giovedì̀ del mese dalle 17.00 alle 18.30 all’interno di uno spazio comune dell’edificio comunitario. La scelta del luogo ha permesso di mantenere un porto sicuro dove riapprodare anche in seguito alle dimissioni. Il tempo del gruppo, circa un’ora e trenta minuti, dona la possibilità̀ di incontrare l’altro ed è un tempo in cui attraverso le libere associazioni scorre il pensiero del gruppo in modo che tutti possano esprimere le loro opinioni in modo paritario. Il tempo sembra rallentare e le persone possono sentire di poter vivere, raccontandolo nel gruppo, parti fino a quel momento inaccessibili della loro vita.

Dei 14 utenti allora ospiti della CPM, otto hanno aderito dall’inizio, due si sono inseriti a partire dal terzo appuntamento incuriositi dai racconti mentre quattro hanno respinto l’invito a partecipare sentendosi già sotto pressione per il progetto di dimissione e temendo che il gruppo avrebbe potuto riaccendere i conflitti con le famiglie aggiungendo ulteriore stress. Le famiglie che si sono unite al gruppo sono state cinque: di alcuni utenti più giovani partecipano i genitori, mentre di altri presenziano fratelli e/o sorelle. In alcuni incontri è capitato che fossero presenti i familiari e non l’utente appartenente al nucleo e viceversa. Gli utenti che partecipano senza familiari (perché́ mancanti, impossibilitati a frequentare per impegni di lavoro o per scelta) si ritrovano in ogni caso a lavorare sulle dinamiche relazionali intrafamiliari poiché́ nell’ambiente del gruppo è possibile vedere cosa avviene nella propria famiglia grazie all’osservazione di ciò̀ che accade nelle altre, diverse ma simili. È necessario ricostituire per tutti gli attori della situazione uno spazio e un tempo in cui possa verificarsi la simbolizzazione. Permettere a genitori e figli di confrontarsi con altri nuclei familiari significa aiutarli a “rappresentare” nuovamente una situazione nella quale possono essere messe in scena e riconosciute le relazioni oggettuali.

 

4. Il tempo dell’emotività

Il passaggio delle dimissioni viene vissuto dai pazienti, dai famigliari e dagli stessi operatori come un cambiamento radicale, che fin dal primo incontro lascia emergere emozioni legate alla perdita di uno spazio sicuro verso qualcosa di ignoto. Nei primi incontri è emersa sonoramente la sensazione di ingiustizia da parte degli utenti per la chiusura della CPM, come se ne leggessero un mancato riconoscimento della fatica terapeutica fatta e la necessità di una nuova performance. Allo stesso modo i famigliari si sono rispecchiati con un’incredulità̀: “non sapete cosa abbiamo passato noi, così stiamo rischiando di rompere un equilibrio raggiunto in comunità̀, che ha aiutato entrambi”. La coerenza dell’equipe e il credere nell’attuale stabilità, nelle risorse e nelle abilità acquisite, sono stati il mezzo per scardinare la rabbia e lasciare spazio all’emozione sottostante della paura. Sono ribolliti sotto la superficie, infatti, timori e angosce sia dagli utenti, in vista del distacco dalla comunità̀ e del nuovo percorso di autonomizzazione in appartamento, sia dai familiari, che hanno espresso dubbi e perplessità̀ circa la riuscita del progetto, rimandando spesso un’immagine regredita e non autonoma ai congiunti e facendo tornare a galla vissuti di fallimento, dolore e disintegrazione. In tale frangente i familiari hanno poi espresso una maggiore tranquillità̀ per il fatto che i loro congiunti sarebbero rimasti ancora in carico alla stessa equipe, il Budget di Salute con la sua declinazione, ma al contempo espresso la convinzione che gli utenti non fossero ancora in grado di affrontare la vita in autonomia. Nei primissimi incontri dai famigliari è trasparso ad esempio la preoccupazione rispetto alla gestione autonoma della terapia, percepita da sempre come elemento garante della salute. Le rassicurazioni sono arrivate dagli utenti che hanno raccontato dell’autosomministrazione e delle strategie trovate affinché́ ciò̀ avvenga in sicurezza. Emerge anche la paura che l’eccessiva autonomia possa disorientare i figli, tanto che un padre domanda “chi verifica il loro rientro la sera dopo un’uscita? Potrebbero perdersi in metropolitana!”. Lo scambio di informazioni mostra un continuo fluire di rassicurazioni che a fine gruppo infondono fiducia: “i nostri cari possono farcela, aiutandosi o scambiandosi i compiti, per esempio in cucina”. Nell’esprimere quindi questa emotività̀ ambivalente anche gli utenti si sentono liberi di riconoscere nell’altro le proprie insicurezze ed accettarle: celeberrima la frase espressa con tenerezza “pensavo che mio papà fosse un supereroe e invece ha l’ansia anche lui”. Utilizzando il paradigma psicoanalitico dell’identificazione proiettiva possiamo affermare che parti più̀ o meno massive del mondo psichico dei pazienti (ad esempio un atteggiamento pessimistico e senza speranza) nel corso del tempo siano state disconosciute e rifiutate come proprie, venendo depositate, proiettate e trattenute inconsapevolmente nel mondo psichico dei familiari, e viceversa. Il gruppo qui ha la funzione di non lasciare la loro circolazione silenziosa e inavvertita nelle relazioni più strette, per non intossicare il clima familiare, come dimostra indirettamente il costrutto dell’emotività̀ espressa elaborato da George Brown (1985) nei primi anni ‘60. La Psicoeducazione (Leff e Vaughn, 1985) che si attua è finalizzata a ridurre l’influenza patogena e a consentire agli attori in campo di riconoscere per quanto possibile, grazie all’esame di realtà̀ fornito dal percorso psicoeducativo, l’altro da sé nella sua separatezza, cioè̀ nella sua individualità̀ depurata dalle proiezioni dei propri fantasmi.

 

5. Il tempo del lutto

Condividere con i familiari un progetto di deistituzionalizzazione, come quello del Budget di Salute, significa dunque coinvolgerli in un cambiamento in cui i pazienti si rimettono in moto verso un’autonomia non solo abitativa ma anche più̀ estesamente identitaria ed esistenziale. Un movimento in cui il tempo scorre lineare e non più̀ circolare – con lo sguardo verso il futuro e il passato alle spalle – e che richiede nel percorso di elaborare il lutto di ciò̀ che continuamente era e non è più̀. Nel gruppo, infatti, a questo riguardo fluiscono riflessioni intime: la sorella di un ospite verbalizza la tristezza per il termine del percorso comunitario; un’utente si allinea a tale considerazione abbandonandosi ad un momento di tristezza provocato dal lasciare la compagna di stanza della comunità̀, si commuove ed esclama: “in comunità̀ ho trovato una famiglia, dopo aver perso la mia”. Così apre il tema del lutto un altro ospite che verbalizza per l’ennesima volta il motivo della sua partecipazione pur non avendo una sua famiglia. Alle condoglianze immediate di un compagno di percorso che accoglie alla lettera tale affermazione, fanno eco i rimandi di coloro che sono a conoscenza del ricovero della mamma in RSA. Il paziente commenta: “sì, la mamma è ancora viva ma è ridotta ad un vegetale, almeno immagino ciò, perché́ non la incontro da 3 anni, penso sia invecchiata, incapace di alzarsi dal letto, confusa” e aggiunge dopo le sollecitazioni ad andare a farle visita “non so, temo di dover vivere emozioni troppo forti e non essere pronto a vissuti così impetuosi, ho paura che potrebbe non riconoscermi o trovarla troppo invecchiata”. Il paziente si sente accolto e incoraggiato dai presenti ed ipotizza la possibilità̀ di chiedere una fotografia recente della madre e non esclude la possibilità̀ di farle visita. Dopo tale racconto il paziente sperimenta ansia, esce dal gruppo, il papà di un altro utente poco dopo lo segue invitandolo a rientrare. Il Gruppo Multifamiliare può essere concepito allora come uno spazio in cui viene condiviso il dolore mentale ed elaborato il lutto intrinsecamente connaturati agli eventi vissuti dai pazienti e dai loro familiari nel divenire temporale del percorso terapeutico- riabilitativo. Il gruppo possiede infatti un’impareggiabile capacità di contenimento naturale del dispiacere, come dimostra l’usanza delle con-doglianze, in cui parenti ed amici prossimi si stringono intorno a chi ha subito una perdita affettiva. Verosimilmente Corrao (1986) si riferiva a questa funzione quando coniò il termine di koinodinia gruppale, intendendo con ciò la capacità di accoglimento da parte del gruppo della sofferenza psichica che consente di “attivare in modo sempre più̀ completo ed articolato l’esperienza di soffrire il dolore, attraverso la condivisione partecipativa transpersonale”.

 

6. Il tempo dell’accettazione del cambiamento

La paura del cambiamento è stata il focus di molti incontri, ma con il passare del tempo il gruppo è riuscito ad elaborarla valorizzandone gli aspetti vitali rispetto a quelli di perdita. D’altronde il progetto di Bds ha attivato un cambiamento, letteralmente inteso come “la trasformazione di un individuo come processo di autorealizzazione o come risultato della tendenza al mutamento e delle resistenze ad esso” (Galimberti 2006). Una volta dimessi negli appartamenti gli utenti hanno infatti potuto raccontare al gruppo gli aspetti che li mettono più̀ in difficoltà, come il dover cucinare tutti i giorni e prendersi cura della casa, il dover gestire da soli la giornata e i tempi vuoti, ma anche il maggior senso di indipendenza e libertà percepiti. Anche i familiari più̀ restii ad intervenire, con il trascorrere dei mesi hanno iniziato a raccontarsi trovando negli altri parenti, negli utenti e negli operatori comprensione e occasioni di confronto, e riuscendo a scalfire quell’atteggiamento di chiusura e isolamento dietro il quale si erano barricati e difesi. Le resistenze che emergono si riescono a contrastare costruendo uno spazio di parola, una conversazione costituita da libere associazioni, una famiglia diffusa che si rispecchia con la famiglia interna di ciascuno, un luogo in cui pensare insieme quello che non si riesce a pensare da soli (García Badaracco e Narracci 2004). Per raggiungere questo risultato occorre costruire una situazione in cui le differenti idee espresse non producano contrapposizioni, ma perseguano la complementarietà̀ e vadano nella direzione di rendere compatibili le differenti visioni del mondo. A tal proposito un utente riporta la fatica di dover sottostare agli ordini delle due coinquiline che lo costringerebbero sempre a lavare i piatti, e lamenta di non sentirsi per niente supportato dal compagno di appartamento che a suo dire “sta sempre lungo disteso nel letto senza fare nulla”. La sorella di un altro utente gli rimanda: “devi riflettere sul fatto che se non partecipa alle attività̀ dell’appartamento è perché́ probabilmente non sta bene, e che occorre nella dimensione della convivenza sforzarsi di venirsi incontro accettando le differenze caratteriali di ciascuno”. Aggiunge poi che “ognuno ha delle difficoltà diverse, e l’unica chiave risolutiva è il dialogo”. Con il lavoro del GMF può̀ succedere che dai membri di una famiglia possano emergere aspetti delle rispettive personalità̀ che non avevano avuto modo di svilupparsi: le cosiddette “virtualità̀ sane”. Il concetto di virtualità̀ sana (Jorge García Badaracco, 2007) concepisce il paziente come colui che, se aiutato, può̀ essere in grado di appropriarsi e riappropriarsi della propria vita.

 

7. Il tempo assoluto

Passano i mesi scanditi dal diverbio temporale tra i vissuti del momento e il tempo che avanza universalmente. Le giornate, come un pendolo oscillano tra il confronto con il passato, dove ripararsi in momenti nostalgici, rievocare il ricordo di un primo avvicinamento al cambiamento e rileggere snodi di un percorso in atto da tempo, ed il presente, collante tra timori e certezze nel quale si affrontano gli imprevisti e i bisogni di una vita considerata ora “vera, reale”, equanime. Si giunge poi all’altra estremità̀ della fluttuazione, nel futuro, dove benessere e speranze, almeno su un piano ipotetico, danno forma alle aspettative passate e alla fatica presente, facendone affiorare un primo piano di realtà̀ su ciò̀ che spetterà̀ loro. Costanti proiezioni temporali nelle quali le emozioni espresse, assumono differenti significati, creano contrasti e ambivalenze, instillando in utenti e familiari il bisogno di soddisfare una ricerca di un’integrità̀ personale in risposta ai propri dubbi più intimi. Per tale motivo alla domanda della psicologa che solitamente apre il gruppo multifamiliare “allora, come state?”, le risposte vertono su temi differenti, diametralmente opposti, risuonando dell’inclinazione di un pendolo interiore. Si evince quindi una fragilità̀ prima della risposta, dettata da una domanda più personale, nemesi di un percorso lineare e prevedibile e che porta i presenti a distorcere gli stadi prestabiliti del proprio percorso. Certi dell’oggettività dei mesi trascorsi, riecheggiano sempre meno nel contesto gruppale la ritmica interiore di presenti e assenti e diviene più̀ calzante il ticchettio dell’impazienza di un obiettivo da raggiungere. Gestione abitativa, impegni medici, socializzazione tra pari e aggancio al territorio sembrano non poter più possedere lo spazio di un’incertezza ma lasciano campo ad un tempo assodato, rigido e rigoroso nel quale ciò̀ che è già̀ stato affrontato è dato come per forza appreso ed elaborato nel suo complesso. È di fronte ad una tale richiesta che il paziente tende a manifestare una fragile prontezza alla prossima fase o a riportare una ferrea remissione all’accesso alle successive fasi di crescita.

“Perché́ mio figlio non sta ancora lavorando?”, “il voto al percorso di mio figlio non è sufficiente”, sono solo alcune delle considerazioni avanzate nel gruppo dai padri di due coinquilini di un appartamento nei confronti del proprio figlio, mentre verso il figlio dell’altro riescono a rimandarsi i traguardi raggiunti. Si realizzano in questa fase il rispecchiamento metaforico e i transfert multipli descritti da Badaracco, che insieme rendono praticabile il recupero della capacità di rappresentare la situazione nella quale si vive. Il rispecchiamento metaforico e non reale, dà ad ogni partecipante la possibilità̀ di osservare ciò che accade in un contesto analogo al suo e ciò può aiutarlo a rendersi conto del tipo di legame che intercorre, con qualche differenza, ma anche molte similitudini, nel proprio nucleo familiare. I transfert multipli danno la possibilità di accorgersi che un figlio/a riesce a parlare con il padre o la madre di un’altra famiglia e viceversa, e che i figli e genitori si parlano tra loro scambiandosi impressioni e giudizi.

Gli stessi figli verbalizzano “il mio percorso è un investimento per il futuro” e “io mi sento meglio ora” come manifesto di una disparità di percezioni sulla base di chi guarda l’oggi pensando a quanta strada manca e chi lo vive ripensando a quanta strada percorsa. Sono realtà in apparenza impossibili da far coesistere ma che nel GMF trovano la sede di conciliazione, in quanto il gruppo si occupa di smascherare individuali aspettative, liberare i singoli partecipanti dalle intelaiature di una visione rigida, determinare la capacità di dar valore al dubbio come strumento di crescita e presentificare i vissuti soffermandosi sul benessere come risonanza della consapevolezza del tempo interno e non come rincorsa di un tempo oggettivo.

Grazie a questo continuo lavoro di riconoscimento dell’uno verso l’altro degli aspetti positivi di un comune sentire, un ospite con orgoglio riesce a dichiarare quanto prosegua positivamente il suo percorso in appartamento: “ho un buon ritmo, non sento il peso di fare cose come le pulizie, la spesa, cucinare, perché́ sono in grado di, non sento più̀ l’obbligo delle mie coinquiline come avveniva all’inizio. A ciò̀ non ha contribuito solo una terapia meno sedativa, come gli suggerisce uno dei genitori presenti: il cambiamento è stato favorito soprattutto dalla consapevolezza che “dovevo dare un senso al percorso in housing. All’inizio non accettavo il progetto, ritenevo fosse avvenuto troppo presto, ero arrabbiato; i primi giorni ho addirittura appositamente assunto doppio dosaggio di terapia subendo una lavanda gastrica, poiché́ volevo essere mandato via. Ora è diverso, io mi sento diverso”. Il gruppo coralmente riconosce e rinforza il cambiamento messo in atto dall’utente.

 

8. Il tempo dell’autocritica

Con il passare del tempo la nuova esperienza sul territorio stempera l’elemento di novità̀ e lascia emergere una capacità di autocritica nei confronti del modo in cui si affrontava la vita nel contesto comunitario, scandito dalle regole e dai ritmi lenti, rispetto a come la si affronta ora. Una delle partecipanti afferma: “mi sento più̀ libera di quando ero in comunità̀, dove c’erano così tante regole”. Due utenti affermano di sentirsi più̀ tranquilli da quando sono in appartamento: tale esternazione è rinforzata dal commento di un familiare che sostiene come già̀ di per sé, anche se dall’esterno potrebbe sembrare che non stiano facendo chissà̀ quante e quali cose, il riscoprirsi in una dimensione di tranquillità̀ sia una conquista importantissima. Un altro paziente afferma “non è più̀ come stare in comunità̀. In appartamento si vive come se fosse casa nostra”, sottolineando la piacevolezza della dimensione della vita domestica. In qualche occasione i familiari danno voce a critiche quasi non riconoscendo i progressi dei congiunti, come se il tempo del cambiamento non andasse di pari passo con quello delle loro aspettative: un papà, raccontando del tirocinio lavorativo da poco iniziato dal figlio, sminuisce la sua capacità di tenuta criticandone la stanchezza da lui riportata nonostante le poche ore di turno, ed esclama “io sono stato uno studente lavoratore, e riuscivo a conciliare tutto”. Interviene uno dei familiari presenti dissentendo aspramente e riportando al contrario l’importanza di gratificare e rinforzare le abilità mostrate dal figlio nel rimettersi in gioco. Afferma: “bisogna imparare a godere dei traguardi raggiunti, perché́ seppur possano all’esterno sembrare piccole cose in realtà̀ si tratta di grandi conquiste”. Anche un altro genitore si lamenta che il figlio non abbia voglia di far niente, riferendosi alla fatica dichiarata dall’utente nel dover cucinare in appartamento. A tale esclamazione segue proprio da parte di quest’ultimo il rimprovero alla mamma presente per non avergli insegnato a cucinare quando viveva in casa con loro, motivo a cui attribuisce la difficoltà che oggi vive ai fornelli. La madre replica: “tu scappavi sempre mostrandoti disinteressato”, e il figlio ribatte: “avresti dovuto dirmelo”. Gli operatori intervengono in modo mai intrusivo rimandando altresì̀ ai familiari i progressi dei quali loro, accompagnando quotidianamente gli utenti nel nuovo percorso di vita, sono testimoni: accade quindi che ad un tratto proprio quel papà che poc’anzi criticava il figlio per la poca voglia di fare, esprima parole intrise di gratitudine e riconoscenza come “voi operatori ormai conoscete i nostri figli meglio di noi”. L’apporto dei Terp ed educatori si rende strumento prezioso nel riportare osservazioni quotidiane ed incoraggiare la possibilità̀ di prendere in considerazione punti di vista divergenti per instaurare un clima di collaborazione che valorizzi al massimo i contributi di tutti i partecipanti.

 

9. Tempo della speranza

L’esperienza di un anno di percorso in BdS porta nel gruppo una rinnovata serenità̀. Le esperienze dei mesi precedenti permettono agli utenti di portare segni tangibili di una realtà̀ che prosegue, che ne accresce l’autostima e permette di scrollarsi da una primordiale timidezza che tendeva ad affievolirne la voce quando un utente parlava di sé. Le esperienze quotidiane di vita, i continui confronti tra coinquilini e familiari, le numerose esposizioni agli imprevisti e alle novità̀ del percorso sostengono una maggior conoscenza reciproca tra i partecipanti, una maggior capacità empatica e forgiano un pensiero collettivo e costante tra familiari, utenti ed equipe. Le trame intime dei singoli tendono sempre più̀ spesso a sovrapporsi con quelle degli altri, si percepisce una maggior libertà di condivisione e accettazione, una sensazione di positività̀ e speranza. Questo clima apre quindi alla possibilità̀ di affrontare una realtà percepita come nuova, ovvero legata al periodo del piacere. Risulta automatico l’affiorare di esperienze passate, il significato del periodo vissuto per ciascuno dei partecipanti e il desiderio di assecondare un processo di cambiamento sempre più profondo. Diventa più̀ facile accedere ad un’illusione che tutto sia più possibile, che il nuovo possa portare benessere e non sempre complicazioni e sfiducia. A tal proposito impatta in una seduta l’esclamazione di un partecipante: “speriamo che arrivi qualcuno di nuovo in appartamento” a cui fanno eco le esperienze positive affrontate da altri presenti che hanno ritrovato nel nuovo “una parte di sé che si era staccata”, “una persona con cui condividere la quotidianità̀”. Frasi che, tramite lo stupore suscitato, lacerano il velo della vulnerabilità̀ spesso associata ai pazienti e ne svelano una forza insospettabile e ribadita dai familiari. Si rinnova un augurio collettivo nel gruppo che dà spazio alla commozione e alla speranza, l’abbandonarsi ad un sincero auspicio, viverlo fino a che lo si può sentire presente, condividerlo tra i presenti perché́ liberatorio e non vincolante o prestazionale. Fiducia che si esprime perché́ già̀ anzitempo sperimentata in più̀ occasioni ma in forme diverse: nel passaggio dalla comunità̀ al BdS il leitmotiv dei famigliari era che gli utenti potessero farcela, “l’augurio di imparare a chiedere aiuto”, “l’augurio di una maggiore autonomia”; al ripresentarsi di un partecipante dopo un periodo di assenza (“era un po’ che non ti si vedeva, eravamo preoccupati, ma ti vedo meglio di prima”), all’ascolto di novità degli utenti che alimentano e soddisfano le aspettative. Si apre quindi ad una riflessione su come tale desiderio abbia accompagnato i presenti dall’inizio del percorso, rappresentandone una spinta costante, spesso alimentata sottovoce ma sempre presente. Si condividono nel GMF dei progetti che, seppur vulnerabili e macchiati da paure, risultano condivisi, attivi e coinvolgenti, rinnovati segretamente dalla continua aderenza e partecipazione al gruppo volti ad alimentare e sostenere un processo di cura dapprima immaginato, poi voluto ed ora sostenuto.

 

10. Tempo della speranza

Il GMF è divenuto con il tempo una sorta di famiglia allargata in cui i singoli membri iniziano a funzionare come parti di un tutto: «secondo Badaracco, con il passare dei minuti, le menti dei componenti del gruppo iniziano a funzionare come le parti di un’unica grande mente, la mente ampliada», che permette la metabolizzazione di stati mentali difficilmente elaborabili a livello individuale. I fatti privati narrati di volta in volta dai partecipanti trovano uno spazio di ascolto e condivisione generando solidarietà̀ e sostegno reciproco e permettendo un confronto che non porta al conflitto bensì̀ alla sperimentazione di una sorta di coalizione che rende ai loro occhi i vissuti problematici non più esclusivi ma frutto di dinamiche presenti anche in altri. Il Gruppo Multifamiliare, incontro dopo incontro, si rende così testimone da un lato dei processi di responsabilizzazione degli utenti che si stanno riappropriando di un ruolo attivo come cittadini e come figli, fratelli, sorelle e dall’altro della concomitante restituzione a loro della delega della cura da parte dell’istituzione (comunitaria) e della famiglia.

 

Bibliografia

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Searles, H. F. (2000). Scritti sulla schizofrenia. Bollati Boringhieri.

Winnicott, D. W. (2005). La famiglia e lo sviluppo dell’individuo. Roma: Armando.

Tempi dellae cura e tempo della formazione alla psicoterapia
Alessia Torregrossa

L’articolo esplora la Formazione in Psicoterapia nella società postmoderna, evidenziando la complessità della pratica clinica in un contesto dominato da velocità, semplificazione e medicalizzazione della sofferenza. La formazione è vista come un processo di “Re-Esistenza”, intrecciando professionalità, trasformazioni umane e ontologiche, e opponendosi alle logiche consumistiche e capitalistiche che limitano la profondità e la relazione terapeutica. Viene sottolineata l’importanza della formazione come esperienza comunitaria e simbolica per recuperare legami e significati condivisi attraverso la ritualità, in una società ormai frammentata e desimbolizzata. Si narra l’esperienza pratica della conduzione di un gruppo terapeutico con adolescenti vittime di traumi, nel contesto della Neuropsichiatria Infantile e dell’EIAM (Equipe Interistituzionale contro l’abuso e il maltrattamento) , in cui gli obiettivi terapeutici hanno riguardato la definizione  dei confini, la costruzione di narrazioni coese del Sé, la tolleranza del vuoto e il rafforzamento della Mentalizzazione ponendo l’accento sulla dimensione dell’intersoggettività. Centrale è la riflessione sul tempo, considerato sia soggettivo che relazionale, fondamentale per affrontare il trauma e costruire nuovi significati. Il rito della chiusura del gruppo rappresenta un momento simbolico e affettivo di elaborazione del lutto e speranza, evidenziando la formazione come un viaggio trasformativo in cui il terapeuta è “il primo paziente del gruppo”.

Formazione in Psicoterapia, Re-Esistenza, Riti, Gruppo, Intersoggettività…

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Times of Care and Time of Psychotherapy Training

The article explores psychotherapeutic training in postmodern society, highlighting the complexity of clinical practice in a context dominated by speed, simplification, and the medicalization of suffering. Training is described as a process of “Re-Existence,” intertwining professionalism with human and ontological transformations while opposing consumerist and capitalistic logics that restrict depth and therapeutic relationships. The importance of training as a communal and symbolic experience is emphasized, aimed at recovering shared bonds and meanings through rituality in an increasingly fragmented and desymbolized society. The article recounts the practical experience of leading a therapeutic group with adolescents who are trauma survivors, within the context of Child Neuropsychiatry and the EIAM (Team Against Abuse and Maltreatment). Therapeutic goals included defining boundaries, building cohesive self-narratives, fostering tolerance for emptiness, and strengthening mentalization with a focus on intersubjectivity. Central to the discussion is a reflection on time, seen as both subjective and relational, essential for addressing trauma and constructing new meanings. The ritual of group closure is portrayed as a symbolic and emotional moment of mourning and hope, underscoring training as a transformative journey in which the therapist is “the first patient of the group.

Training in Psychotherapy, Re-Existence, Rituals, Group, Intersubjectivity

 

La mia esperienza formativa si dispiega dentro ad un processo di Re-Esistenza, in cui si intrecciano profondi cambiamenti che rimodellano non soltanto l’essere psicoterapeuti in termini professionali e di competenze apprese, ma soprattutto ontologici e umani. All’interno di una cornice culturale post-moderna, in cui i codici capitalistici di uso e consumo si dilatano in tempi strettissimi e iperveloci, la Cura e l’Esserci in senso Heideggeriano, essenziali nella dimensione terapeutica e non solo, sembrano fagocitati e assoggettati ad una logica da “tutto e subito” e di coazione a produrre. Si assiste così ad un triste ritorno ad un uso sfrenato di diagnosi e trattamenti brevi, medicalizzazione e risposte farmacologiche, che ipersemplificano la dimensione della fragilità e della sofferenza e parallelamente la parcellizzano. Contemporaneamente i servizi pubblici rischiano il collasso per le ingenti domande di cura, scenari in cui l’iperburocratizzazione si associa a tempi ristretti e non riesce a garantire un’adeguata presa in carico. Il dialogo tra istituzioni viene così meno e nella dimensione performativa e consumistica, che sembra far tremare vecchie fondamenta, i giovani specializzati si ritrovano monadi: più soli a confrontarsi con livelli complessi e a costruire spazi e ponti di rete e dialogo in assetti privati, che molto spesso spaventano. Nella mia personale esperienza da neo-specializzata, la difficoltà maggiore è risultata quella di far coesistere e intrecciare la dimensione del sociale post-moderno con quella della Cura, intesa come costruzione di un progetto che richiede tempi e analisi adeguate all’interno di contesti istituzionali complessi e che si fonda sull’incontro e sul gioco (citando Winnicot, 1971) di gruppalità già di per sé fortemente in crisi. Sulla scia del contributo di Byung Chul Han (2021), mi viene in mente la Scomparsa dei Riti, non soltanto ad un livello di trasformazione di una società ormai dominata da una “comunicazione senza comunità”, ma soprattutto nella dimensione dell’incontro con l’altro da sé (che poi diviene Altro-da-me, citando Recalcati, 2020), in cui l’altro, il diverso, ormai assume forme di alienazione, viene vissuto come disturbante e paranoico, e alimenta un clima di sfiducia, violenza e paura. È qui a mio parere che diviene fondamentale il tema della formazione: una formazione che si fondi sul senso comunitario e rituale dell’appartenenza, attraverso l’acquisizione di competenze che riguardano soprattutto il saper attuare quel “mettere insieme” (proprio dalla funzione simbolica del rito, e dalla sua radice linguistica: symbolon, symballein) che consente di creare pratiche di accasamento, fondare legame e comunità. Oggi assistiamo infatti ad una coazione all’autoproduzione di sé, in cui viene accentuato un culto spasmodico dell’autenticità in senso narcisistico e una dimensione pornografica ed esibizionista: il mondo, dunque, non è più “teatro simbolico e sociale” in cui poter sperimentate parti di sé nell’incontro con l’altro, ma una vetrina in cui apparire. È questo “mettere in scena” che ho trovato nodo cruciale nell’esperienza formativa, poi divenuta incorporata e messa a servizio di una prassi clinica. Nel mio percorso formativo ho imparato a sostare, ad accogliere parti dell’altro rispecchiate, ad entrarci in risonanza per soggettivizzarmi, separarmi e individuarmi. Ho anche imparato ad Essere Gruppo, attraverso l’importanza della ritualità, dei passaggi e delle chiusure. Questo mi ha guidato nei processi trasformativi e nelle esperienze di tirocinio, soprattutto quella di conduzione di un gruppo di terapia in cui la sfida della fondazione non soltanto ha riguardato aspetti più clinici e legati all’alleanza terapeutica e alla presa in carico di adolescenti complessi, ma proprio nella co-costruzione di una matrice costituita da rituali, simboli e confini in grado di garantire il più possibile un’esperienza intersoggettiva autentica e umana in un tempo qualitativamente esperito nella partecipazione e nell’Essere Con.

 

1. La costruzione di un gruppo a tempo limitato e il percorso formativo

Costruire un gruppo a tempo limitato ha infatti richiesto attenzione e cura, sia nel tracciare i confini e i tempi nella costruzione del set-ting che nel tenere conto dell’intersezione di molteplici elementi istituzionali (interni, esterni e organizzativi) soprattutto in un contesto pubblico come quello della Neuropsichiatria Infantile  e ancor più nello specifico nell’EIAM (Equipe Interistituzionale contro l’abuso e il maltrattamento) che si occupa della presa in carico di minori vittime di violenza. In un Dipartimento di Salute Mentale la complessità e la gravità della psicopatologia e delle situazioni cliniche richiedono spesso l’attivarsi di una presa in carico altrettanto complessa, che interseca una serie di interventi: psicofarmacologico, psicoterapeutico o riabilitativo, spesso condotti da figure diverse. È il caso del mio gruppo a termine, co-costruito in un’equipe di staff (insieme al Direttore del servizio, ad un collega neuropsichiatra e un’osservatrice silente), in cui si è dovuto tenere conto delle varie dimensioni istituzionali coinvolte: le famiglie delle pazienti (disfunzionali e altamente disorganizzate, spesso sede delle violenze assistite o subite), il tribunale, le comunità per minori, la scuola. Il mio viaggio formativo all’interno dell’EIAM inizia due anni fa con il confronto con un docente COIRAG: la proposta di fondare un nuovo gruppo, più strutturato e in co-conduzione, all’interno di un servizio cosi complesso e con adolescenti traumatizzati, mi ha suscitato molte emozioni tra cui il timore di una presa in carico così delicata, ma anche il riaccendersi di un forte desiderio di poter pensare, fondare e condurre un gruppo di psicoterapia in accordo con il percorso formativo. Nell’ottica, dunque, di alimentare una cultura psicoterapeutica e gruppoanalitica all’interno del Servizio, cominciamo attraverso le riunioni di equipe a pensare e progettare un gruppo più strutturato, che potesse conciliare sia i tempi che l’efficacia della cura di pazienti traumatizzati, con obiettivi e focus ben precisi applicabili nella pratica clinica. In tal senso si è data importanza al focus interpersonale, basato sul modello di Yalom (1985), in cui l’accento è sulle relazioni interpersonali, sullo sviluppo della coesione e sull’esperienza correttiva emozionale (Alexader e French, 1974): il gruppo diviene microcosmo sociale in cui apprendere ed esperire nuove modalità relazionali dentro un ambiente sufficientemente sicuro e contenitivo. Nello specifico il funzionamento generale gruppale (ovviamente con differenze sostanziali soggettive) verteva su un’organizzazione borderline con tratti dipendenti/contro-dipendenti, in cui sono stati predominanti i temi legati al trauma complesso a ai vissuti di vuoto, di inadeguatezza e di abbandono, con una carenza di funzione riflessiva e di mentalizzazione. Gli stili di attaccamento erano per lo più ansioso-ambivalente e disorganizzato, con meccanismi di difesa prevalentemente legati a svalutazione/idealizzazione, proiezioni e identificazioni proiettive, scissioni, acting out, enactment e stati dissociativi. Gli obiettivi e il progetto terapeutico hanno riguardato un lavoro sui confini, il riconoscimento emotivo attraverso le esperienze del qui ed ora, tenendo presente sempre il rischio di riattualizzazione traumatica, il lavoro sulla coesione ma anche sulla soggettivizzazione per contenere la tendenza agli atti distruttivi o di fusionalità, il fornire un contenitore saldo in cui co-costruire fiducia e ascolto empatico, la diminuzione degli alti livelli di ansia e allarme costante, la tolleranza di vuoto e angoscia, morte e annientamento. Focus primario è stato il lavoro sul potenziamento della funzione riflessiva attraverso lo scambio interpersonale, con interventi anche di natura più attiva ed espressiva volti ad aumentare consapevolezza e ad accompagnare il più possibile verso una rinarrazione di Sé e un’integrazione identitaria più coesa. Le precondizioni per la mentalizzazione delle esperienze traumatiche includono infatti risonanza, rispecchiamento, holding e una matrice dinamica di gruppo capace di contenimento: solo così l’individuo può sviluppare la capacità di pensare l’impensabile e di parlare dell’indicibile. Inoltre, altrettanto fondamentale è stato l’obiettivo terapeutico di rendere il gruppo un “teatro sociale” in cui poter essere validati e riconosciuti dentro un contenitore che rappresenta, simbolicamente e nell’esperienza stessa incorporata ad un livello preverbale (quello giocato dalle memorie traumatiche), un contesto in cui l’altro raccoglie testimonianza vivida di ciò che è accaduto e permette una rinarrazione e una risignificazione di Sè. Solo esperienze di gruppo di questo tipo consentono lo sviluppo di una matrice di gruppo interiorizzata, in cui è possibile esplorare internamente e in modo sempre più consapevole diversi significati, superando il senso di vulnerabilità e impotenza vissuto nel trauma. Un’altra questione nella costruzione del progetto terapeutico e del gruppo è stata quella del tempo, nello specifico l’intersezione tra un tempo soggettivo ed un tempo oggettivo. Nel primo si esprime l’intrinseca singolarità dell’essere umano, del suo pensiero e dei suoi affetti, del suo Esser-ci in senso Heideggeriano; e se, per citare Bion (1971), il “pensiero è tempo”, allora l’esperienza del tempo è strettamente legata al concetto di mente multipersonale e non può che essere relazionale. Ovviamente ciò è ancor più strettamente legato al concetto di tempo oggettivo, in cui il “confine” e il limite (non solo in termini di setting, ma anche come obiettivo terapeutico) segna socialmente e nel mondo gli accadimenti concreti e comunitari, ponendo i confini nel qui ed ora con un inizio ed una fine, che permettono lo svolgimento degli stessi. Ritengo inoltre che il gruppo, inteso come istituzione, sia stato specchio dinamico di scambio con le varie istituzioni in campo: gli obiettivi del gruppo hanno rispecchiato gli obiettivi all’interno di un quadro istituzionale più ampio in cui occorre ampliare una cultura di efficacia, di dialogo e di mentalizzazione del tempo, diversa dai mandati istituzionali più focalizzati sulle valutazioni e sulla “parcellizzazione” della presa in carico e della cura.

 

2. Il processo del gruppo

Di fondamentale importanza è stato il mantenere il focus sulla percezione dei propri vissuti, così da poter capire cosa è indotto dall’ambiente istituzionale, e cosa è in gioco nel rapporto tra i membri del gruppo o nello staff di conduzione, per poter riconoscere in tempo quanto le vicissitudini del e con il “grande” gruppo istituzionale possano ripercuotersi nel piccolo gruppo terapeutico, poiché come affermava Levin (1980): “il piccolo gruppo può considerarsi la biopsia dell’ambiente unitario”. In tal senso spesso ho sentito forte un senso di solitudine e di isolamento, sia sollecitato delle dinamiche co-trasnferali e controtransferali ma anche per via della mia posizione di confine da tirocinante all’interno del servizio. Il senso di “dissociazione”, come una piccola parte a Sé scissa che si muoveva come un granello dentro la complessità del campo istituzionale, mi ha accompagnata insieme al portato che lavorare con vittime di trauma comporta: impotenza, frustrazione, sensazione di indicibilità; sono stati pezzetti che si sono mossi dentro di me e che hanno richiesto uno sforzo analitico personale e formativo molto forte. Nodi che si sono sciolti attraverso il confronto con l’equipe, la supervisione e l’analisi personale, che mi hanno permesso di riflettere sui miei limiti in quanto tirocinante in formazione e in quanto Alessia con le proprie questioni personali, così da poter chiedermi “cosa posso fare?” per poter mettere nel campo le mie risorse e autorizzarmi in quanto conduttrice del gruppo e “istituente di un’istituzione” a mia volta.  Inoltre, sin dal processo di fondazione della matrice gruppale alla chiusura, abbiamo provato a sostenere quel transito tra i legami di attaccamento disfunzionali ad un sistema motivazionale orientato all’affiliazione con la “famiglia sociale” del gruppo dei pari, che potesse permettere proprio il processo di separazione/individuazione: poter “Essere Io”, insieme all’”Essere un Noi”, per poter “Essere ciò che sarò”. Sin dal primo incontro, la fiducia e i confini sono stati temi pregnanti del gruppo, insieme alla paura di esporsi e ai nodi di vulnerabilità che accompagnavano l’idea di un Altro da Sé distruttivo, non tutelante e poco comprensivo, poi anche introiettato e/o proiettato. La difficoltà nel costruire l’alleanza è stata quella di muoversi costantemente sul cercare una giusta distanza: saper decodificare il non verbale corporeo, dare un significato simbolico al portato concreto, sostenere la difficoltà ad elaborare l’esperienza del limite per via dell’onnipotenza adolescenziale e dell’interiorizzazione narcisistica, essere disposti all’inatteso per poter rendere rappresentabile l’impensabile nel processo di separazione-individuazione, di integrazione ed esplorazione di parti di Sé. In tal senso già dai primi incontri l’utilizzare le Carte Dixit come mediatori simbolici e le attività più corporee, come i disegni e la creazione di Quadri, ha aiutato le pazienti a rappresentarsi e progressivamente connettersi con le altre, rispecchiandosi attraverso similitudini e differenziazioni, risuonando in un dolore condiviso ma anche denso di difese e momenti dissociativi. I contenuti traumatici delle storie che si intrecciavano, insieme ad una fragilità identitaria, hanno contribuito ad una oscillazione quasi costante tra momenti in cui ci si donava, e altri momenti in cui, attraverso veri e propri attacchi al setting e a noi come terapeuti, si “misurava” quanto potessimo reggere e come “Esserci” e restare in una dimensione contenitiva e riparativa. Diversi sono stati gli episodi in cui è “sentito” il suggellarsi di un patto di fiducia reciproca con confini che contenevano il terrore di invasione, uno tra tutti l’affidarsi a noi e l’una all’altra nel rinarrare la propria storia e la propria identità rappresentata nei Quadri. Abbiamo infatti chiesto alle pazienti, dapprima in coppia, di disegnare l’una la sagoma dell’altra su un cartellone e da lì di comporlo aggiungendo parole o elementi per ciascuna significativi, sia attraverso il disegno, sia poi con l’uso mediato delle carte Dixit. In questo processo dispiegato nei vari incontri, abbiamo gradualmente chiesto ad ognuno di loro di “donare” qualcosa nel quadro dell’altra e di spiegarne i significati, sottolineando anche le risonanze emotive. Ciò ha generato conflitti, ma rafforzato anche la fiducia, il senso del legame e di appartenenza. La chiusura è stato un momento particolarmente delicato, che abbiamo deciso di lavorare fin da prima della pausa estiva per poter dare il giusto tempo alle pazienti di rappresentarsi e verbalizzare la separazione. Sulla scia del rito conclusivo di ogni seduta, in cui ci alzavamo e ci abbracciavamo in cerchio rimanendo in silenzio per qualche secondo, la chiusura si è contraddistinta dall’uso delle carte (come un cerchio che si chiude) e dello scambio di doni che rappresentassero concretamente e simbolicamente il legame. Abbiamo chiesto alle pazienti di scegliere quattro carte che descrivessero come erano entrate in gruppo, il qui e ora rispetto al processo e agli obiettivi raggiunti, la chiusura con una proiezione futura ed infine una che rappresentasse l’intero gruppo. Nelle narrazioni delle pazienti sono emersi temi comuni: la barca in termini di viaggio, le zone d’ombra nascoste e quelle di luce che sono emerse nel processo terapeutico, il tempo in termini di possibilità, di cambiamento e di speranza ma anche di limite e confine. Accompagnarle nel passaggio della chiusura non è stato semplice: ansie abbandoniche, paura, lutto hanno contraddistinto il campo terapeutico. Emozionante l’ultimo incontro con lo scambio dei doni, nel quale abbiamo scelto un braccialetto di filo colorato per ciascuno di noi (staff di conduzione compreso) e abbiamo invitato le pazienti a scegliere la persona a cui legarlo al polso, evidenziando i cambiamenti in un riconoscimento reciproco e segnando simbolicamente e concretamente il Filo del Legame. Abbiamo restituito alle pazienti una dimensione di affettività, di condivisione e di speranza nel trovare la propria strada, che non è già data a priori dalla loro storia ma può essere costruita: non Il Destino segnato ma Un Destino possibile. Anche noi in equipe abbiamo affrontato insieme la chiusura con tutta l’emotività annessa: nostalgia, perdita luttuosa, commozione, gioia e gratitudine.

 

3. Il processo come tempo per diventare psicoterapeuta attraverso i gruppi

Personalmente ho vissuto la chiusura con meno angoscia e paura rispetto all’idea iniziale, forse perché la visione di un percorso a più livelli che terminava (il tirocinio e la formazione) si è spostata in quella di un “transito”: se è vero che da un lato si circoscrive il limite e il confine di una porta che si chiude, dall’altro proprio per questo si attraversa e ci si proietta in avanti. Ciò mi ha permesso non solo di accompagnare alla chiusura le pazienti, ma di sentire dentro di me più forte il senso di speranza e gratitudine. Abbiamo co-costruito cura e un senso di affetto autentico che ha lasciato un’impronta dentro ognuno di noi. Perché in fondo, come dice Foulkes (1978), “il terapeuta è il primo paziente del gruppo”. Nella costruzione e nella conduzione di questo gruppo, si è dunque intrecciata profondamente la mia storia personale e formativa. Desiderio, fatica e messa in discussione sono stati alcuni degli elementi che mi hanno accompagnata in questo processo, dispiegato in tutti i quattro anni di formazione, in cui è cresciuta la possibilità di autorizzarmi e di rappresentarmi come una psicoterapeuta. E forse simbolicamente questo passaggio l’ho vissuto quando mi è stata consegnata la chiave della stanza del direttore del servizio, in cui ho sentito la responsabilità, il riconoscimento e la bellezza del lavoro svolto. Non è però sempre stato semplice. Ho provato spesso un senso di frustrazione, di inadeguatezza, di disorientamento, di solitudine: elementi che volteggiavano nel campo istituzionale e gruppale ma che gravitavano e risuonavano, come legami atomici, con alcune mie parti. Il tema dell’invisibilità, dell’impotenza, di una rabbia tipica dei sopravvissuti si lega alla mia consapevolezza concreta di cosa significhi vivere un trauma, nel corpo vivo e nella memoria. Consapevole di ciò, ho rafforzato quel senso di alleanza, di fiducia, di sicurezza per poter “Esserci” con autenticità e poter fare passare nel campo gruppale l’esperienza incorporata dell’essere visti, accolti e tenuti, insieme alla possibilità di svincolarsi da quelle identificazioni traumatiche e di “poter Essere” nel mondo, non sopravvivendo ma vivendo. Tutto ciò è stato possibile grazie alla rete attorno a me: la mia analisi personale che mi ha aiutato a dispiegare nodi cruciali; i miei tutor e formatori, che mi hanno guidata quando ero disorientata; il gruppo delle colleghe che mi hanno sostenuta, quando l’emotività e il senso di “inondazione” era fortissimo; la supervisione che mi ha orientato in alcuni momenti critici, in cui spesso rischiavano di affiorare degli agiti, come l’arrivare in ritardo al pre-gruppo o l’anticipare la chiusura per il forte senso di impotenza, stanchezza e frustrazione. Il senso di gratitudine nel prendere consapevolezza del lavoro svolto fin qui e del percorso fatto, è davvero immensa. La fiducia accordatami dai tutor e dai formatori che mi hanno seguita e accompagnata, donandomi la possibilità di costruire questa esperienza clinica forte, di viverla e gestirla con tutta l’umanità e le competenze possibili a mia disposizione, fatica a trovare spazio nelle parole. La commozione più intensa riguarda il percorso terapeutico delle pazienti, gli obiettivi che hanno raggiunto, i loro visi e i cambiamenti anche piccoli, con quel senso di speranza, di fiducia e “luce” che mi auguro riescano a portarsi nel cuore, così come sarà per me. Un’esperienza incarnata che mi navigherà sempre sottopelle e che si è nutrita di un’affettività autentica, stretta in un legame umano e forse proprio per questo riparativo e terapeutico. A mio avviso e per mia esperienza, è dunque nella R-Esistenza alla logica capitalistica in un contesto deritualizzato e desimbolizzato, che la rete formativa si inserisce: contrastando quell’interiorizzazione narcisistica volta all’autoproduzione di Sé, e creando riti, legami e comunità che si esperiscono, nutrono e si incorporano. Perché se è vero che si può diventare Psicoterapeuti, Esserlo diventa tutt’altra storia da rinnovare e costruire di volta in volta nel mondo, insieme all’Altro.

 

Bibliografia

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